La nostra contemporaneità si caratterizza, per la tendenza a ridurre le costellazioni identitarie e la molteplicità delle forme di coscienza ad una unica forma che risulta dalla coscienza del mondo del lavoro.
Tutti gli altri mondi, caratterizzati da diversi ed innumerevoli stati di coscienza e forme di vita, sembrano essere sotto l’impero di questo mondo, anche la realtà si è ridotta ad una unica realtà lavorativa che è diventata la misura di tutte le cose. Il regno della quantità di Guenon abitato dall’uomo senza qualità di Musil.
Questa condizione umana o meglio post-umana diffusa nell’occidente, ma diramata in tutto il pianeta, è abitata da individui che vivono una vita accelerata che li vede transitare negli spazi appositamente costruiti dalle architetture post moderne: centri commerciali, aeroporti, metropolitane, stazioni, discoteche, sempre indaffarati nella principale attività di questo mondo: il calcolo, la compro-vendita, la produzione del consumo ed il consumo della produzione.
Questo spazio metropolitano è una specie di macchina che fabbrica le soggettività adeguate e addestra all’uso dell’unica coscienza ammessa come razionale e ‘giusta’ che definisce patologiche le forme di vita e di coscienza che deviano dal modello.
Tuttavia questa ‘coscienza del mondo del lavoro’ non esaurisce il lebenswelt: il mondo della vita, che tende a debordare e a produrre segni e sintomi nello spazio metropolitano.
L’erba cresce fra il cemento, le formiche, gli scarafaggi, i topi e milioni di piccole e grandi forme di vita proliferano nelle pieghe e negli interstizi di queste architetture. Già W. Burroughs ci ha raccontato che non c’è nessun ‘sterminatore’ capace di eliminarli, non c’è una soluzione finale, i Beatles, si riprodurranno sempre negli spazi delle metropoli.