Nel capitolo precedente si è problematizzata un’area di intervento (la prevenzione) in questo lavoriamo per costruire uno strumento di lavoro, il dispositivo gruppale, e una concezione sul gruppo. La Concezione Operativa di Gruppo, nata dalla corrente psicoanalitica argentina dei Gruppi Operativi di E. Pichon-Rivière e J. Bleger, è stata creata da A. Bauleo che ha utilizzato e riconcettualizzato gli elementi nozionali e strumentali che rendono possibile il lavoro con i gruppi negli ambiti nei quali si svolge la soggettività.
Scopo di questo capitolo è di dare un’idea della mia posizione di fronte all’ubicazione e al movimento di un gruppo, partendo proprio dai lavori che ho realizzato in questi ultimi anni, lavorando con gruppi con finalità terapeutiche, di prevenzione e di riabilitazione, nelle area della Salute Mentale e della Tossicodipendenza e con gruppi con finalità formative e di apprendimento.
Un aspetto importante all'interno delle mie attività è stato la formazione e supervisione delle équipe istituzionali. Questo lavoro non ha solo il significato di un riordinamento e rafforzamento formale delle discipline e delle professioni (nei Servizi o nelle Istituzioni) ma è risultata un’elaborazione in gruppo delle motivazioni e degli elementi controtransferali, così come degli ostacoli epistemologici e degli schemi di riferimento che le diverse figure professionali mettono in gioco quando devono operare sugli obiettivi (compito istituzionale) che loro competono.
Le difficoltà a costruire teorie sono legate alla frequentazione quotidiana della partecipazione ai gruppi. Si potrebbe dire che “siamo sempre in gruppo”, a partire dalla nostra nascita, che è avvenuta in seno a un gruppo, la famiglia. L'eccesso di vicinanza impedisce di separare l'esperienza dal concetto (o teoria) di gruppo. Si diffonde un'illusione che tutti sappiamo su che cosa succede in un gruppo, quando in realtà “tutti partecipiamo”, ma non possiamo così facilmente concettualizzare la dinamica di un gruppo.
L'originaria distinzione di Bauleo (esperienza/concetto) si è ampliata e ha prodotto altri concetti per comprendere ciò che accade nella situazione collettiva. Si chiarisce per esempio che:
- gruppo si riferisce ad una situazione costituita da individui richiamati da una comune finalità;
- gruppalità si riferisce invece alla produzione di soggettività che si estende a includere gli stessi soggetti che la producono;
- gruppale infine riunisce le riflessioni, o i concetti, su entrambe le circostanze.
IL GRUPPO E LA SUA DUPLICE IMMAGINE
Enrique Pichon-Rivière ha descritto il processo gruppale come una spirale dialettica con un doppio registro, uno manifesto e l'altro latente. Quest'ultimo con le sue irruzioni emotive, fantasmatiche ostacolerebbe la formale regolarità del primo e impedirebbe di raggiungere la finalità (compito) per la quale il gruppo si è costituito come gruppo. Sono difficili da prevedere le vicende e i significati a cui la finalità può arrivare, così come le circostanze per le quali il gruppo transiterà. Il latente renderà il percorso di un gruppo non lineare. Bauleo propone che il modello é il processo del sogno (lavoro del sogno), così come ci ha insegnato Freud, che permette di pensare ed elaborare ciò che sta succedendo nel divenire (processo) gruppale. Partiamo dal modello del sogno per intendere il processo gruppale ma non per dire che esso è un sogno, in quanto i partecipanti del gruppo sono in carne ed ossa (Bauleo).
Lo svolgimento completo del processo gruppale ci obbliga a un ripensamento della stessa teoria analitica, come aveva intuito S. Ferenczi, e non a una sua trasposizione puntuale e formale dei concetti, “applicazioni” della Psicoanalisi, come si diceva negli anni Venti.
Pensiamo che per osservare e avere la possibilità di interpretare un processo gruppale la mente del coordinatore subisca una scissione tra una prospettiva più cosciente e un'altra inconscia.
Attraverso la prima raggiunge una certa chiarezza o evidenza sull'inquadramento (o setting), stabilito sulla finalità concordata dal gruppo nel contratto e sulla propria funzione di coordinazione che permette una distanza ottimale. Questa visione facilita la delimitazione, il contenimento, la “holding” della situazione.
Attraverso la seconda prospettiva la mente del coordinatore vive una serie di trasformazioni nell’osservazione della situazione gruppale perché esiste un inevitabile passaggio da una visione individuale a una visione gruppale, di questo “insieme di persone”. Questo passaggio trascina con sé momenti di confusione prodotti dal cambiamento di ottica, di “vertice”, direbbe Bion. Il passaggio richiede una perdita di controllo della somma dei discorsi dei membri e della loro provenienza per entrare nel “più” di questa somma, cioè tutto quello che quell’insieme di persone producono e costruiscono. Ricordiamo la famosa frase di Lewin:” il gruppo è più della somma delle sue parti”. Pertanto l’interesse del coordinatore di gruppo sarà sempre per il “più”, che va a costituire la struttura del gruppo.
LA SITUAZIONE GRUPPALE
Il primo incontro nasce dalla domanda di portare avanti una finalità (compito) da parte degli integranti del gruppo e dall’interpretazione controtrasferenziale del coordinatore. Ossia: nella prima riunione di gruppo sarebbero presenti due elementi: il compito e il controtransfert del coordinatore. I fantasmi, le motivazioni, le aspettative, i desideri dei soggetti ascoltano, aspettano dietro la porta per dare una configurazione al terzo elemento, l’organizzazione gruppale. I tre elementi configurano quella che Bauleo chiama la situazione gruppale. Si struttura così una triangolarità: l'insieme di persone, la finalità e la coordinazione. Spinta dalle vicissitudini prodotte dallo scontro tra le motivazioni, i desideri, i sentimenti da una parte e la resistenza al cambiamento dall’altra, la triangolarità delle funzioni metterà in moto il processo gruppale. Analizziamo i tre elementi in dettaglio.
1) Il compito
Il vincolo principale nella situazione gruppale nasce dalla domanda di realizzare un compito e dalla sua interpretazione da parte del gruppo.
“L'insieme di persone” si riunisce per raggiungere un fine o per operare sulla circostanza che li sovrasta.
Il compito (termine con cui E. Pichon-Rivière definisce la illusoria finalità che convoca l'insieme degli individui) è il perno su cui si centra il processo del gruppo. Tale compito (di terapia, formazione, prevenzione, lavoro e così via) permette di stabilire un punto fermo per gli elementi del processo gruppale che emergeranno. Il compito sarebbe il motivo, il tema, il soggetto, l'oggetto per il quale un insieme di persone diventa gruppo. Il compito è l'elemento, il ponte che permette il passaggio da raggruppamento a gruppo.
Il compito è il lavoro che deve fare il gruppo su un certo obiettivo. Ma più che di obiettivo, si deve parlare di finalità. Non parliamo di obiettivo perché questo termine contiene l'idea che sia un punto già prefissato, un programma. Il programma è pensato prima del gruppo, la finalità parla invece del lavoro che quel gruppo andrà a fare, ma non come un prodotto preformato. La finalità va seguita nel processo gruppale e in ogni caso è il gruppo che la definisce nel proprio lavoro.
Il compito è dunque sempre associato a un lavoro di elaborazione e comprensione di un particolare problema, a partire dal chiarimento del contesto nel quale si affronta. Il compito appare così come un concetto vincolare che permette il “possesso” di un oggetto particolare solamente attraverso i cambiamenti interni degli integranti del gruppo. Sono proprio i cambiamenti interni che permetteranno una conoscenza diversa da quella degli stereotipi dell’immaginario istituito.
Sto cercando di sottolineare la illusoria concretezza del compito manifesto, dal momento che tutto si mette in moto a partire da “qualcosa” che ognuno crede di conoscere, o che gli è consueto, e che presuppone di condividere con i futuri compagni di gruppo.
E' interessante però che se il coordinatore dice “siamo qui per lavorare su questo compito”, non può sapere che cosa ognuno pensa di questo compito, perché ognuno, all'inizio, ha una propria idea del compito. Questo porta facilmente a malintesi: si pensa di parlare tutti dello stesso fatto, della stessa situazione, ma poi si scopre che non è così.
Si crede che il compito sia “quello che si è detto”, che dovrebbe essere il lavoro del gruppo, ma poi si è costretti a vedere quel “qualcosa che non si è detto”, che è il lavoro del gruppo. Per questo motivo il vero interrogativo, all’inizio del gruppo, non è, veramente, come dicono gli integranti, “ma che cosa è il compito?”, ma “come si deve lavorare insieme su quel “qualcosa che non si è detto” del compito.
In un primo momento il compito è il compito manifesto e solo in seguito nel processo gruppale, si scoprono altre caratteristiche, modalità, sfaccettature dello stesso.
Ossia, un insieme di persone, riunite intorno al compito, devono fare lo sforzo di confrontare la propria idea di compito con quella che hanno gli altri membri del gruppo.
La comparsa di “un qualcosa” di non conosciuto, gli altri significati o implicazioni del compito che ciascuno scopre negli altri, cominciano a produrre cambiamenti e trasformazioni e il “qualcosa” diviene un compito collettivo.
Occorre un lavoro psichico da parte di tutti per comunicare ed elaborare i collegamenti e gli scambi del gruppo sul compito.
Sin dai primi momenti si incomincia a notare una distanza o diversità tra i punti di vista dei partecipanti su quello che, nel primo colloquio gruppale, era stato individuato come l'obiettivo centrale che essi desiderano portare avanti (contratto), ma appena il processo incomincia a svilupparsi, i significati, le fantasie o le aspettative che, in un primo momento, parrebbero avere la stessa direzione cominciano a differire.
Inizialmente il compito manifesto sembra essere una questione banale, ma in seguito si scopre che ha tanti significati per il gruppo; il coordinatore non deve dare mai per risaputo il compito del gruppo perché il processo gruppale si sviluppa tra la prima riunione - dove tutti credono di sapere qual è il compito per tutto il gruppo - e l'ultima - quando si arriva a non sapere quale era il compito per il quale ci si era riuniti, perché sono emersi numerosi significati. C'è un movimento tra l'inizio, dove c'è un accordo, e il processo che si sviluppa in seguito.
Si abbia un obiettivo terapeutico, oppure di formazione o di organizzazione, i significati, le fantasie o le aspettative, che in un primo momento parrebbero avere lo stesso scopo, cominciano a differire appena il processo del gruppo incomincia a svilupparsi.
Detto in un altro modo: i partecipanti avevano chiesto sulla possibilità di portare avanti un lavoro insieme per trattare una determinata finalità, quando, con il mero apparire del lavoro in comune, sorge improvvisamente la differenza. La domanda unitaria comincia a irradiarsi in orizzonti di significato diversificati. Poco a poco la situazione assume le caratteristiche di un ventaglio di problematiche che si dispiegano. Emerge un paradosso: sembrerebbe che il raggruppamento iniziale, che si è riunito intorno a un compito, per cercare di organizzarsi come gruppo, ha bisogno prima di disorganizzarsi, seguendo le idee o le ambizioni individuali.
Una volta stabilita e approvata la finalità manifesta del contratto, per ogni integrante comincia un particolare processo che parte dal luogo originario (primario) da cui è sorto l'aggancio storico con l'attuale finalità.
Ossia ognuno a partire dalla propria storia personale ha deciso di imbarcarsi in questo viaggio. Per essere più precisi (e all'interno dell'ambito gruppale), è a partire dal proprio gruppo di appartenenza e di riferimento, dal proprio romanzo familiare, ossia dai gruppi precedenti a questo gruppo che inizia, che si è strutturato il desiderio di partecipare alla presente circostanza gruppale.
Di qui l'espressione: “Entrare in un gruppo significa uscire da una situazione gruppale precedente, storica, per inserirsi nel processo collettivo attuale”.
Sinteticamente: si esce sempre da un gruppo per entrare in un gruppo. Il passaggio tra uscita dal vecchio gruppo ed entrata nel nuovo racchiude tutto l'accadere gruppale.
Emozioni, sentimenti, fantasie, ansie, resistenze al cambiamento e stereotipi sono effetti e risultati di questo passaggio. La difficoltà o impossibilità a rifletterci intorno e/o a stipulare la probabile presenza della regressione in gruppo sono dovute anche a questo passaggio.
Come diversi autori dicono, i partecipanti fanno sforzi enormi per invadere e aggiustare il gruppo attuale al proprio gruppo interno. Si cerca che “questi” siano “quelli”.
Stiamo parlando del perché e delle finalità delle identificazioni proiettive e dei transfert reciproci. Ognuno, con un grande impiego di energia cerca di imporre tirannicamente la propria “idea” di come dovrebbero costruirsi i vari passi per giungere all'obiettivo finale.
Quest'idea trova i propri supporti emotivi nei luoghi storici dove è stata generata, che rendono più vigorosa la loro presenza e più difficoltoso il cammino della loro trasformazione.
Le vicissitudini delle trasformazioni delle idee originali con le quali si è giunti al gruppo sono uno dei luoghi che le vicende gruppali attraversano. Le angosce e i sentimenti che germogliano in queste vicende sono legate a quelle idee e portano alla superficie i momenti iniziali della loro costituzione.
La partecipazione, ad ogni livello, del gruppo de-struttura e ri-struttura le proprie idee rispetto all'accadere gruppale. Esiste sempre una guerra tra lo stereotipo (l'armatura che alberga la pazzia del non-cambiamento) e l'apprendere dall'esperienza.
Ossia “l'apprendere da” o “il prendere” quello che accade, come diceva Pichon-Rivière.
Le domande sul perché o sulla finalità delle forme e dei significati dei diversi momenti gruppali si alternano agli interrogativi sugli altri. L'io e l’altro alternano gli sguardi, gli ascolti, le sensazioni. Nel processo gruppale si giocano sempre le reubicazioni (le assegnazioni e le assunzioni di ruoli): da dove si parla agli altri e da dove gli altri parlano, con un dubbio sul luogo dove ci si colloca o si è collocati. Un lavoro psichico si rende necessario per comunicare ed elaborare le interconnessioni e gli scambi del gruppo.
I comportamenti del pre-compito sono manifestazioni stereotipate o resistenziali e rendono evidente proprio questo lavoro psichico.
2) Il controtransfert della coordinazione
Approfondiamo un po' di più la funzione del coordinatore. Incontriamo un certo numero di problematiche che si incrociano. In mezzo a queste intricate situazioni dell'inizio del gruppo, gli integranti e il coordinatore tenteranno di dare forma a una finalità e, a partire da lì, a un contratto (inquadramento) di lavoro. Si stabilisce una regola di funzionamento che a sua volta farà da cornice, sulla quale si depositeranno, secondo Bleger, le parti più indifferenziate dei soggetti. Le impressioni, le sensazioni, le ipotesi emergono di fronte “all'insieme di persone” che desiderano strutturare un gruppo.
L'immagine dell'individuale e dell'insieme si alternano, in quanto cerchiamo di ritagliare vincoli o leadership che ci danno un segnale sulla futura probabile organizzazione che il gruppo adotterà.
La coordinazione è il risultato di un contratto stabilito con un insieme di persone per lavorare su un determinato compito. Il lavoro del coordinatore è quello di segnalare, a partire da una asimmetria che nasce dal contratto, gli ostacoli affettivi e/o epistemici che si manifestano nel vincolo gruppo-compito. Per quanto riguarda questa funzione un elemento da approfondire è il problema del controtransfert. Quando la Concezione Operativa fa riferimento al controtransfert, è necessario chiarire che non si sta parlando di un “groviglio” di emozioni o sentimenti che invadono il coordinatore quando entra in contatto con i membri del gruppo. Come ha ben precisato P. Heimann, per correggere malintesi e ingenue letture del concetto, il controtransfert non segnala i sentimenti del terapeuta, che sono naturalmente sempre presenti, ma una particolare intensità dei sentimenti in un preciso momento della terapia e l'uso che se ne fa. Si sta dunque segnalando uno strumento di ricerca che può permetterci di arrivare al conflitto gruppale, prima del nostro ragionamento (Bauleo). Non bisogna dimenticare che, quando parliamo di controtransfert, intrecciati alle emozioni, o come altra faccia dei sentimenti, esistono aspetti o elementi cognitivi come la storia gruppale del coordinatore che in ogni incontro si mette in gioco.
Bion ha insistito proprio su questo, sia quando mette al centro l’elaborazione del passaggio dall'emozione al concetto sia quando ribadisce che l'apprendimento non può prescindere dall'esperienza. Su questo punto, tanto nella psicoanalisi quanto nella formazione, risulta impossibile una distinzione netta tra campo cognitivo e campo emotivo; nel processo di conoscenza partecipano entrambi, senza che sia possibile stabilire come, quando e quanto.
Non dimentichiamo che proprio la scoperta di queste circostanze ha rotto il primato della coscienza e della razionalità, quali unici elementi in grado di riunire tutte le forme di conoscenza.
L'interagire dei vincoli ci consente di apprezzare in profondità la situazione gruppale senza cercare di spiegare ossessivamente “ciò a cui si deve” questa maggiore comprensione. La nostra esperienza ci ha insegnato proprio questo: nelle sessioni di gruppo, osserviamo e sentiamo con sufficiente chiarezza, gli effetti del “transfert reciproco”.
All’inizio del gruppo, nel controtransfert del coordinatore, non ci sarebbero solo il desiderio, le paure e i fantasmi di realizzare o partecipare alla realizzazione di un gruppo; sarebbero presenti anche quegli elementi affettivi e conoscitivi che derivano dalla propria formazione di coordinatore e che costituiscono lo schema di riferimento. L’inconscio necessita di tutti i sensi. Li orienterà in modo che lo sguardo possa vedere oltre il visibile, l’orecchio apprezzare i silenzi, il tatto sfiorare le angosce, l’olfatto annusare alcune latenze. Si potrà sentire anche il caldo e il freddo che le circostanze suscitano nel coordinatore.
La funzione del coordinatore di osservare, comprendere e interpretare le circostanze gruppali si mette in moto a partire da uno schema di riferimento flessibile, frutto della propria formazione.
Il gruppo offre la possibilità di mettere a fuoco il passaggio dall’affetto al pensiero, il nesso, l’intreccio tra lo schema di riferimento, l’esperienza e l’azione.
Bauleo ha sinteticamente chiamato tutto ciò che ho fin qui detto col termine di “lavoro controtransferale”, si manifesta, cioè, come un segno da decifrare. P. Heimann parla delle “ragioni di un intervallo” intercorso tra la comprensione inconscia e quella condivisa. Quando si mette in moto il processo gruppale il terapeuta o coordinatore compie un movimento psichico inconscio, che lo aiuta ad interpretare i comportamenti del gruppo. Tale lavoro psichico è simile a quello dell'autoanalisi di un sogno. Non si tratta semplicemente di quello che si chiama utilizzo del controtransfert, operazione in base alla quale si attribuisce al gruppo o a parti di esso sentimenti o ansie che il coordinatore prova.
La Concezione operativa, insistendo sulla necessità di avere ed usare uno schema di riferimento per il lavoro gruppale, ha fatto in modo che venga con insistenza richiesta una teoria della tecnica, cioè una continua riflessione e messa a punto degli strumenti.
L’elemento centrale della formazione è avere svolto un'esperienza analitica di gruppo, ossia devono coincidere un'elaborazione teorica e una partecipazione in gruppi analitici che operano sul compito e sugli integranti, nel senso che l'analisi gruppale permetta un auto ed etero-centramento del gruppo. I conflitti che emergono nel gruppo sono il derivato del lavoro psichico che viene realizzato.
Il lavoro psichico apre le possibilità di intendere le circostanze che competono al collettivo, in quanto sono i vincoli intersoggettivi, che si stabiliscono nello svolgimento del gruppo, che danno gli elementi necessari per apprendere dall'esperienza. In questa maniera la formazione compie la funzione di organizzare uno schema di riferimento, inglobando in esso, non solo concetti, ma anche emozioni, sentimenti ed esperienze che saranno punti di partenza, stimoli nella comprensione di situazioni collettive.
Lo schema di riferimento offre al coordinatore le condizioni per intendere quello che succede. L'intendere si intreccia all'intuizione con cui si opera nel campo gruppale.
Possiamo aggiungere che l'intuizione appare con un habitus di pura spontaneità, ma sappiamo che, nel nostro caso, è il risultato di tutto il precedente lavoro di formazione del coordinatore. Intuizione e interpretazione si legano nel registro preconscio, attraversato da rapidi flussi consci e inconsci.
Per semplificare si potrebbe dire che mentre sentiamo, osserviamo e ascoltiamo l'accadere gruppale, a poco a poco sorgono ipotesi su ciò che succede, al fine di incontrare la “fonte comune di angoscia” nel gruppo per segnalarla (Ezriel).
I desideri del coordinatore di conoscere l'interno della propria famiglia e soprattutto dei genitori, così come la curiosità infantile di fronte alla propria sessualità e a quella degli altri, a volte ostacola, a volte spinge a osservare il funzionamento del gruppo sulla base del proprio schema di riferimento. Le differenti e alterne organizzazioni del mondo psichico del coordinatore offrono le condizioni, parafrasando Foucault, per ordinare l'enunciazione delle interpretazioni che danno una comprensione ulteriore di ciò che succede nel gruppo.
Lo schema di Pichon-Rivière è: emergente - interpretazione - emergente. L'emergente è quel fatto, comportamento o frammento di discorso che ha attirato l'attenzione del coordinatore per dare un senso all'accadere gruppale, ed è simile all'idea di sintomo, di punto di urgenza.
3) L’organizzazione gruppale
Sembrerebbe che il raggruppamento iniziale, che si è riunito intorno a un compito, per cercare di organizzarsi come gruppo, abbia bisogno prima di dis-organizzarsi, seguendo le idee, le motivazioni o le ambizioni individuali.
Il lavoro comincia con il primo organizzatore della situazione gruppale: il setting. Il setting si colloca nel passaggio da raggruppamento a gruppo, contiene questo processo.
Il gruppo è lo stesso raggruppamento con un setting che sta funzionando come delimitazione tra il dentro e il fuori.
I membri vengono al gruppo con uno schema di riferimento primario che un po' alla volta comincia a scalfirsi, ma il primo impatto che subisce lo schema di riferimento avviene con il setting. Tutte le difese all'inizio si presentano rispetto al setting. Il setting provoca un primo momento di confusione perché non si sa che significato dare al fatto che il coordinatore interroghi i membri del gruppo sul setting.
Il compito è stato pensato dagli integranti a partire da uno schema di riferimento primario. Il compito iniziale è un compito primario, primitivo, nel senso che implicitamente vi ha partecipato il gruppo interno attraverso le sue richieste. Il compito, infatti, scelto individualmente con il proprio schema di riferimento primario, è primitivo, pre-scelto, è prima del gruppo. Il coordinatore non conosce, ma neanche i membri sanno bene, qual è stata la vera motivazione per quel compito.
Per questo si deve decidere per un primo organizzatore (il setting) che organizza anche il coordinatore per permettergli di riflettere sulla situazione gruppale. Senza setting non si può lavorare con un gruppo. E' il setting che permette al coordinatore di “mettere la propria testa” in quel gruppo (setting interno).
Anche gli integranti devono “mettere la propria testa” su quel gruppo, per lavorare il passaggio da raggruppamento a gruppo, per lavorare sulla propria motivazione rispetto al compito.
Il setting sostiene, è un contenitore per la comparsa delle differenze. E' quello che permette che, malgrado emergano le differenze, le persone restino nel gruppo e inizino a dare una pelle al gruppo stesso. Quando emergono le differenze, si cominciano a vedere i punti in comune.
A un certo punto gli integranti si chiedono se ci sono punti e interessi in comune per continuare a lavorare sul compito, si cerca cioè una complicità per restare con lo schema di riferimento precedente, senza modificarlo. Nel gruppo cominciano a chiedersi di tutto, non solo per conoscersi, ma anche per cercare una complicità sulla relazione tra schema di riferimento precedente e compito attuale.
Ogni partecipante, a partire dalla propria storia personale, ha deciso di incontrare gli altri. Per essere più precisi, il desiderio di partecipare all’attuale situazione gruppale si è strutturato a partire dal proprio gruppo di appartenenza e di riferimento, dal proprio romanzo familiare, ossia dai gruppi precedenti a questo gruppo che è iniziato.
Emozioni, sentimenti, fantasie, ansie, resistenze al cambiamento e stereotipi sono effetti e risultati di questo passaggio.
Ma le atmosfere gruppali precedenti fanno sentire la propria urgenza e rendono più difficoltoso il cammino della loro trasformazione nella situazione attuale.
Le vicissitudini delle trasformazioni delle idee originali con le quali gli integranti sono giunti al gruppo sono uno dei momenti che le vicende gruppali attraversano. Le angosce e i sentimenti che germogliano in queste vicende sono legate a quelle idee e portano alla superficie i momenti, le circostanze e le atmosfere della loro nascita.
La partecipazione ad ogni livello del gruppo de-struttura e struttura le nostre idee rispetto all'accadere gruppale. Esiste sempre una guerra tra la ripetizione e l'apprendere dall'esperienza. Ossia il poter “apprendere da” o “prendere” quello che accade.
I partecipanti fanno enormi sforzi per rimodellare il gruppo attuale al proprio gruppo interno. Ogni partecipante, con un grande impiego di energia, cerca implicitamente di imporre la propria “idea” di come il gruppo dovrebbe lavorare per giungere all'obiettivo finale. L'idea di come dovrebbe essere un processo gruppale trova i propri supporti emotivi nei luoghi storici dove essa è stata generata e vissuta, i gruppi precedenti.
Le domande sul perché o sulla finalità delle forme e dei significati dei diversi momenti gruppali si alternano con gli interrogativi sugli altri partecipanti al gruppo. Sono momenti di scambio in un clima aperto alle fantasie. Si alternano gli sguardi, gli ascolti, le sensazioni, i desideri, le paure. Su questa trama fantasmatica si giocano le re ubicazioni dei partecipanti, cioè il gruppo si struttura sulle forze dell’intergioco dei meccanismi di assunzione e assegnazione dei ruoli.
Da quale ruolo si parla agli altri e da quale ruolo gli altri ci parlano?
In questo gioco di re-ubicazioni emergono gli aspetti resistenziali e stereotipati. I membri del gruppo iniziano a interagire accettando o rifiutando i ruoli che vengono loro assegnati, ossia trasferiti, a seconda che possano soddisfare o non soddisfare le loro necessità. I comportamenti manifesti sono tentativi di risolvere una tensione che ha un’infrastruttura di fantasia inconscia attraverso l’assegnazione di ruoli. Ognuno fa come una specie di gioco degli scacchi quando cerca di fare le mosse che più convengono, sperando che l’altro faccia la mossa che a lui piacerebbe, per ridurre il livello di conflitto e di tensione. Così a poco a poco si stabiliscono le relazioni richieste per evitare altri tipi di relazioni. A questo livello i comportamenti sono al servizio dell’utilizzo di una tensione che è in relazione con necessità inconsce e, di conseguenza, i ruoli acquistano caratteristiche difensive. A un certo punto la paura è che nel gioco tra i membri del gruppo non si possa uscire da legami claustrofobici.
Detto diversamente: ogni membro del gruppo rispetto al compito assume vecchi ruoli e fa assumere agli altri i ruoli complementari. I ruoli cioè si costruirebbero sulla base del gruppo interno dei partecipanti. La rete che si costruisce implica che ognuno assegna un ruolo a un altro in funzione delle persone e delle situazioni dei gruppi precedenti e, in ultima analisi, del proprio gruppo familiare.
Ma il compito attuale del gruppo reclama ruoli che non siano fissi e stereotipati. Il processo della comunicazione rende possibile che si sviluppino maggiormente i vincoli, che cominciano a non essere più stereotipati. Le relazioni si fanno più complesse, perché le persone non sono le persone reali, ma quelle che ognuno ha costruito all'interno del proprio gruppo interno (personaggi). L'altro diventa una figura che mi parla dal mondo interno. Non è più una persona, ma come penso che questa persona possa pensare il compito. La differenziazione tra i partecipanti al gruppo non è più sul sesso, l'età, ecc., ma su come ognuno pensa il compito. Il compito ha fatto riconoscere i membri in base alle loro visioni sul compito.
Quando diciamo che il gruppo è arrivato a uno schema di riferimento secondario, costruito dal gruppo stesso, non si vuole dire che tutti sono uguali e la pensano nella stessa maniera (illusione gruppale di uguaglianza), ma che sono arrivati a un certo punto di contatto tra le diverse prospettive di pensare il compito. Sono punti di contatto fugaci, che sfuggono. Lo schema di riferimento secondario è effimero, fatto di punti di riferimento instabili, fugaci, labili. Non si tratta di una situazione chiara, esatta, ci si deve sempre chiedere ancora qualcosa, mettersi sempre in riferimento con il compito.
Il lavoro psichico di riaggiustamento continuo si rende evidente attraverso le manifestazioni stereotipate o resistenziali, sono i comportamenti del pre-compito, il “come se” del compito.
Il compito, che ha costituito il gruppo, si definisce e ridefinisce attraverso i diversi passaggi del processo gruppale. Le ridefinizioni del compito forniscono significati nuovi alla motivazione iniziale per la quale ha preso avvio il lavoro psichico nella situazione collettiva. La motivazione sembra riaggiustarsi e ricontestualizzarsi.
Il costante mutamento del compito manifesto e della sua importanza spinge i partecipanti a un’elaborazione soprattutto rispetto al conosciuto nell'attuale situazione di gruppo, rispetto a ciò che si è presentato come consueto e abituale quando il gruppo ha avuto inizio.
Solo quando il gruppo finisce avremo la diagnosi definitiva sulla finalità del gruppo (compito latente): con la sua fine si conosce il fine, afferma Bauleo.
In sintesi: il costante movimento del processo gruppale disegna la capacità dei partecipanti di centrarsi sul compito (pertinenza). La pertinenza ci parla del grado di internalizzazione del compito ed è in funzione della motivazione (personale e/o gruppale), del desiderio dei partecipanti e della produzione sociale.
Mentre seguiamo il processo della pertinenza rispetto al compito, emerge la questione della coesione gruppale. La coesione è il legame esistente tra i vari membri del gruppo, si esprime attraverso il legame libidico di integrarsi al gruppo, attraverso l'identificazione con gli avvenimenti e le vicissitudini del gruppo, visualizza il grado di internalizzazione del gruppo esterno. La coesione punta alla possibilità di costruire l'insieme, lo stare insieme. Nominare la coesione significa anche mettere a nudo il vincolo libidico che lega i partecipanti a un gruppo.
Legata alla coesione troviamo la cooperazione. La cooperazione consiste nel contributo anche silenzioso al compito del gruppo e si stabilisce sulla base di ruoli differenziati. Ci parla del quantum di internalizzazione dello schema di riferimento gruppale.
Coesione e cooperazione chiaramente non possono essere imposte dall’esterno del gruppo, ma nemmeno i partecipanti le possono volontariamente installare o imporre come esigenza. Nascono poco a poco, spontaneamente, dalla trama vincolare del gruppo, dalle identificazioni incrociate che si stabiliscono.
Da un altro punto di vista, sarebbe impossibile riuscire a elaborare collettivamente un compito se il gruppo non possiede un grado di coesione e non ha ottenuto una certa cooperazione tra i suoi membri. Se, come abbiamo visto, il processo gruppale ha un equilibrio instabile, é indispensabile parlare di “gradi di coesione”, così come di “un quantum di cooperazione”. Non esiste un livello che si conquista una volta per tutte, c’è un'incertezza costante (quello che non si sa) su ciò che avviene nel processo gruppale.
Possiamo dire che la coesione migliora grazie all'accettazione della struttura attuale del gruppo; ossia, la coesione è in relazione diretta con l'abbandono dello schema primitivo con il quale ognuno è giunto al gruppo, implica in ogni caso l’elaborazione del lutto dei modelli e dei vincoli precedenti.
Parallelamente, la cooperazione è in funzione della capacità che l'insieme va acquistando di offrire strumenti agli atteggiamenti e alle potenzialità dei membri.
A PARTIRE DAL CONTRIBUTO DI JOSÉ BLEGER
I coordinatori sanno che il gruppo attraversa durante la sua storia una serie di crisi profonde. Crisi che incominciano a manifestarsi subito nelle prime sedute, e che a volte portano all’abbandono di alcuni integranti del gruppo stesso. Crisi che si presentano più in là attraverso manifestazioni soprattutto extraverbali, acting, attraverso la qualità oppressiva continuata o fluttuante del silenzio, attraverso un clima di ruminazione depressiva, o attacchi violenti al compito o al setting. Queste atmosfere sono captate dal coordinatore con sofferenza, come un rallentamento dell’attenzione fluttuante, un’attenzione bloccata in una focalizzazione improduttiva, in una noia. Spesso il coordinatore non tollera la vaghezza e la confusività del momento del gruppo e cercherà di smuovere la situazione con interventi che richiamano a un focus, alludendo per esempio a temi che hanno lasciato da parte perché troppo conflittuali. Si legge cioè l’impasse del gruppo come una semplice conseguenza dell’abuso della negazione che avrebbe portato il gruppo a un’esperienza di vuoto o di astio.
I membri che con un’osservazione esterna possiamo considerare come individui discriminati e differenziati in qualche modo dagli altri, si trovano in uno stato di fusione o di indiscriminazione. Si trovano in quello sfondo di simbiosi, di sincretismo che costituisce il legame più primitivo tra gli integranti del gruppo. A questo livello gli altri sono cercati come quadro strutturante del proprio psichismo.
Molti autori pensano che il gruppo si rappresenti attraverso una serie di interazioni.
Bleger ipotizza che la socialità non è solo relazione. E' questo il senso che possiamo pensare quando parla di una relazione che è una non relazione. Bleger precisa che quelle che si chiamano “relazioni gruppali”, che si basano su processi di identificazione incrociata che rendono possibile la situazione gruppale, sono il livello più avanzato dello sviluppo della gruppalità (socialità per interazione) che è in relazione con uno strato più primitivo (socialità sincretica) che può apparire in determinate circostanze. Si individuerebbe cioè un'area dove l'individuale e il sociale sarebbero fusi e indiscriminati.
Cerchiamo di chiarire meglio che cosa è indiscriminato. C’è qui un contatto, un agglutinamento, un nesso confuso con l’altro, una non-identità, più che un vincolo con l’altro, nessun soggetto emerge come figura dallo sfondo in cui si trova immerso e questo implica una cancellazione delle differenze tra gli integranti del gruppo, in quanto l’altro è solo il depositario delle proprie parti indiscriminate. E’ un tipo di interazione con il mondo esterno in cui le proprie capacità e il proprio assetto interno sono dovuti alla presenza dell’altro, senza che vi sia un’interazione attiva tra i due.
La gruppalità non è una fase, ma un substratum costante, e l'individualità (socialità per interazione) si prefigurerebbe a partire da una rete di interazioni dove le altre persone sono necessarie come “supporto” per le emozioni interne. Come ha affermato Bion si rende manifesto qualcosa che in altra maniera non sarebbe visibile.
Per Bleger, Winnicott, Searles l'individuo, quando viene al mondo, non è un'unità chiusa che deve gradualmente aprirsi, mettersi in relazione, ma vi è in lui sin dalla nascita un nesso confuso con l'altro in un sincretismo, in una mancanza di discriminazione tra io e non io.
Non esiste ancora né mondo interno, né mondo esterno, ma un tutto indiscriminato, dal quale dovrà gradualmente differenziarsi, perché soltanto allora s’instaurerà nel soggetto un mondo interno distinto da quello esterno. All'inizio non c'è né proiezione né introiezione. Queste diventeranno operanti solo dopo che una certa discriminazione nell'organizzazione sincretica, indifferenziata, è stata stabilita. Il processo che s’istituisce in un gruppo non è di progressiva connessione tra i membri, ma di graduale distacco e individuazione rispetto all’originaria struttura sincretica. In altre parole, non sono gli individui a formare i gruppi, ma sono i gruppi che formano gli individui. Il problema non è entrare in gruppo, ma uscire dal gruppo.
Nelle internalizzazioni del contenitore gruppale e nell’appropriazione dei contenuti portati dagli altri membri, il soggetto trasforma un po' alla volta il proprio spazio fusionale indiscriminato in uno spazio di interazione, mediato dallo sguardo, dal gesto, dalla voce, dalla parola. In questo spazio simbolico, sociale, si produce il riconoscimento di se stesso come integrato, relazionato e, contemporaneamente, differenziato dall'altro.
Lo spazio relazionale viene costruito, é una conquista, e la sua configurazione segnala un cambiamento qualitativo nell'organizzazione intrapsichica del soggetto, nella modalità di relazione tra mondo interno e mondo esterno. La dinamica gruppale fondamentale si snoda lungo due linee direttrici:
- da una parte, vi è una “lotta contro” il livello sincretico per arrivare a una individuazione,
- dall'altro, i membri del gruppo hanno bisogno di mantenere a quel livello parte dei propri vincoli, perché in esso viene essenzialmente controllata la parte del livello sincretico, perché altrimenti l'io correrebbe il rischio di dissoluzione, di dispersione, di disorganizzazione psicotica.
E' necessaria mantenere una discriminazione (clivaggio) tra la socialità sincretica e la socialità per interazione, propria dell'organizzazione più evoluta della gruppalità. Tutte le volte che questo clivaggio corre il rischio di rompersi il gruppo attualizza momenti di grave difficoltà.
Nelle prime fasi del gruppo, ma anche successivamente, in situazioni particolari, possiamo osservare l'emergere della socialità sincretica attraverso un'organizzazione narcisistica di gruppo, ossia il predominio della struttura indiscriminata e la proiezione del mondo interno nel mondo esterno (setting, atmosfera) in maniera tale da impedire una qualsiasi discriminazione tra oggetto interno (gruppo e setting precedente) e depositario (gruppo e setting attuale). Quello che viene proiettato nel gruppo non è tanto un contenuto mentale o un sentimento quanto una serie di vincoli con le atmosfere che li abitano. Ognuno dei componenti del gruppo è depositario e agisce ruoli corrispondenti a vincoli e oggetti interni di altri. Le relazioni all'interno del gruppo riattivano, cioè, un sapere inconscio “sulle” relazioni gruppali “nelle” relazione gruppali.
E' una fase dove la distinzione tra i membri, il coordinatore e il compito non esiste.
Anche il coordinatore è coinvolto nello stesso sfondo di sincretismo del gruppo.
Questa struttura indifferenziata si presenta come fondamentalmente corporea. Il corpo, precisa Bleger, serve da “buffer” per evitare che venga disorganizzato o invaso l'io.
Nello stesso tempo, un certo movimento e un abbozzo di apprendimento sono ugualmente presenti, ondeggiano intorno alle sensazioni corporee, ai contatti, ai limiti tra il dentro e il fuori.
Nella nostra esperienza questa modalità oscilla con una seconda dove i membri incorporano il gruppo indiscriminato come oggetto interno e stabiliscono la simbiosi con il gruppo dentro di sé (autismo). Nel gruppo appare una certa dispersione e sembrano bloccarsi le reazioni emotive che diventano fredde e distanti. Si cerca di superare la dipendenza simbiotica attraverso una forma di isolamento reattivo. Il timore di restare imprigionati (claustrofobia) spinge i membri del gruppo a situazioni di autosegregazione (il silenzio freddo di alcuni integranti) o a ricorrere ad acting, come arrivare tardi, aprire finestre, uscire prima, interrompere la terapia. Nel gruppo si respira un'aria di oppressione, di blocco.
Man mano che il soggetto entra nella struttura gruppale, i vecchi gruppi spingono per imporsi nel qui e ora della situazione attuale. Il setting e in particolare il compito gruppale mobilitano porzioni del livello di socialità sincretica depositati nel gruppo interno e offrono la possibilità di essere discriminati, in quanto l'individuazione poggia sulle possibilità di lavoro sul compito.
Il compito del gruppo facilita il passaggio da un'identità sincretica a una per interazione perché consente di elaborare comportamenti stereotipati preesistenti. Ancora al qui e ora della situazione gruppale, agisce da organizzatore, è lo strumento della contraddizione che presentifica la dinamica del processo.
Emergono situazioni di ansia confusionale per la reintroiezione massiccia e violenta dei nuclei indiscriminati. Non si sa dove ci si trova perché incominciano a incrinarsi certe regole mentali di natura simbiotica. L'invidia, la persecuzione, la minaccia di essere espulsi e l'angoscia catastrofica affiorano.
GRUPPO INTERNO E GRUPPO ESTERNO
Il movimento tra il gruppo interno e il gruppo esterno è il motore del processo gruppale. I soggetti, quando entrano in gruppo, sono come spinti a uscire, sono strappati, diceva Foulkes, dai gruppi precedenti e questo sarebbe un primo livello di individuazione che i soggetti possono acquisire, mentre il gruppo attuale si va strutturando come gruppo.
Per gruppi interni precedenti intendo non solo il proprio gruppo interno primario (famiglia), ma anche i modelli, le norme e le attività imperniate su valori e funzioni sociali (istituzione) e in questo senso penso che Bleger parli di aspetti istituzionalizzati del gruppo o di gruppo come istituzione.
Nella letteratura sui gruppi si suole dire che i membri, nel momento in cui entrano nel gruppo, sono individui, per poi venire, o aver paura di venire, completamente confusi nel processo. L’angoscia è quella di cadere in una situazione nuova, caotica, o in una situazione fusionale (massificazione). A partire da Bleger ipotizziamo la situazione esattamente al rovescio, nel senso che non è la novità a fare paura, ma lo sconosciuto che esiste all’interno del conosciuto (perturbante). La paura è in realtà generata dall’ignoto che i soggetti portano in sé sotto forma di parti indiscriminate, cioè la paura di non poter continuare a interagire secondo i modelli consolidati che hanno assimilato nei gruppi precedenti. Non è la disorganizzazione e il caos della situazione nuova a far paura, quanto l’emergenza di quella particolare organizzazione che è la socialità sincretica dove vige la non-costituzione dell’identità individuale.
Ma nello stesso tempo proprio in questo passaggio, con la rottura degli schemi di riferimento precedenti, i soggetti possono diventare più “individui”, perché ogni volta che si attraversa un gruppo si devono rivedere i rapporti con i propri gruppi precedenti e questa è la condizione di possibilità per lavorare sul livello di socialità sincretica. In questo percorso diventano più manifesti gli aspetti più indiscriminati dei soggetti ed è per questo che emergono situazioni di ansia confusionale dove non si sa dove ci si trova e per fare che cosa. Quando un membro del gruppo dice che vuole andarsene, tornarsene a casa, la casa è il proprio gruppo precedente. Anche quando si arriva in ritardo o si lascia il gruppo prima della fine della seduta, non è ancora discriminato il limite tra gruppo precedente e gruppo attuale.
Il passaggio dal gruppo interno precedente al gruppo esterno secondario si delinea attraverso l’internalizzazione reciproca e la modificazione del gruppo interno che gli integranti realizzano. Questo passaggio si realizza sulla base della discriminazione di porzioni di socialità sincretica insiti nel gruppo precedente. Solo attraverso la sua mobilizzazione possono avvenire i cambiamenti più significativi. Il lavoro di discriminazione porta cioè alla rottura di regole istituzionali.
L'istituzione non è soltanto un edificio, con la sua organizzazione, leggi, ruoli e norme condivise, ma anche l’insieme delle regole mentali che utilizziamo per pensare le situazioni. Le istituzioni assolvono a diverse necessità di una società. La dimensione istituzionale non si esaurisce negli aspetti funzionali e organizzativi. Essa tende a normativizzare il tipo di enunciati che è pertinente a ciascuna delle necessità, autorizzandone alcuni ed escludendone altri. Offre ai soggetti una griglia mentale di valutazione della realtà, un modo di pensare e sentire.
“Oltre ad interagire con gli individui, le istituzioni funzionano sempre (a livelli diversi) come i limiti dello schema corporeo e il nucleo fondamentale dell’identità” (Bleger).
Nell’istituzione, e dopo vedremo anche nel setting, s’immobilizza la fusione io corpo-mondo esterno, una sorta di “colla sensoriale”, di fondo simbiotico comu-ne in cui tutti gli integranti sono immersi, e che concorre a definire l’identità corporea di ciascuno.
Le istituzioni organizzano lo spazio relazionale e il tempo vissuto del dentro e del fuori. L’individuo è infatti agito da comportamenti programmati (istituzionalizzati) e non mentalizzati che rendono le interazioni sincrone. Nei gruppi primari abbiamo imparato una logica per comprendere i fenomeni. E' questa logica di comprensione che ogni volta mettiamo in gioco di nuovo, nel senso che ogni volta utilizziamo la logica delle regole di gioco perché la socialità sincretica è il codice della socialità per interazione. E’ un tipo di interiorizzazione che avviene nella indifferenziazione e che resta indifferenziata. Sul piano gruppale esiste una base comune condivisa da cui può procedere l’individuazione.
Uno dei maggiori problemi per un coordinatore, un terapeuta, è dato dal fatto che ad, un certo punto, per “intendere” la situazione, è obbligato a rompere una particolare comprensione mentale che ha di un certo evento: ma se ha sviluppato un certo livello di relazione con gli altri non gli risulterà facile sentire, capire che cosa significhi essere indiscriminato. Anche il coordinatore, cioè, per capire la situazione di indiscriminazione deve fare una regressione e molte volte, ugualmente, non riuscirà ad afferrarla. In ciò consiste il problema di mettersi nella situazione di discriminazione-indiscriminazione.
Questi sono i momenti iniziali di un gruppo, ma necessariamente ogni tanto il gruppo si ritroverà in questa situazione; ogni tanto emergerà di nuovo l'ansia confusionale mentre il gruppo continua lentamente a organizzarsi.
Quando si dice che c'è una tensione tra identità e appartenenza stiamo dicendo che una porzione di identità sarà collegata con il gruppo precedente (socialità sincretica) e una porzione con l'appartenenza e che l'appartenenza è collegata con le parti che sono entrate nel gruppo (gruppo attuale). Allora la tensione tra identità e appartenenza è anche la tensione tra le parti che stanno transitando nel gruppo, ma è anche la tensione che nasce da questo movimento.
Nel gruppo, tutte queste parti si vanno un po’ alla volta organizzando, nel senso che si organizza una certa relazione tra la parte discriminata e quella indiscriminata. La tensione tra identità e appartenenza in un gruppo starebbe ad indicare questo processo.
Tutto ciò produce necessariamente ansia e angoscia, perché quando si tocca il livello sincretico emergono le ansie psicotiche.
Come avviene il passaggio da una situazione indiscriminata a una discriminata? Gli integranti del gruppo come possono approfittare di questo movimento per crescere?
Il passaggio è favorito dall’istituzione di un compito e di un contenitore, un setting.
E’ utile sottolineare che la situazione iniziale comincia con l’istituzione di una finalità (il compito) che nel processo gruppale, come un caleidoscopio, mostrerà ai partecipanti i suoi ulteriori significati, gli aspetti latenti. Solo alla fine del gruppo si potrà avere un’opinione più ampia sul compito. Il setting (definire cioè tempo, spazio, ruoli o funzioni e compito), peraltro, permette di sviluppare tutte le vicissitudini del compito. Il contenitore serve per non perdersi, sia per il gruppo, sia per il coordinatore. Il coordinatore deve lavorare per mantenere il setting perché il gruppo possa sviluppare il proprio compito. Se non risulta chiaro l'inquadramento, non si può lavorare con il compito, devono cioè essere esplicitate le condizioni di possibilità all'interno delle quali si lavora con il compito. In questo senso il setting é il contenitore del compito.
L'importanza del setting serve tuttavia anche perché il compito di un gruppo non si esaurisce mai, e attraverso un contenitore noi mettiamo così dei limiti allo sviluppo del compito stesso. Non sono la stessa cosa la fine e il fine del gruppo. La fine di un gruppo non vuol dire che si è finito, perché c'è sempre un processo interno che continua. Il setting fissa la fine ma non il fine. “Bisogna dare un tempo” per permettere di aprire il pensiero “a continuare a pensare”.
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