Prologo
Quando Pichon-Rivière introduce la sua nozione di vincolo a quattro movimenti di andata e ritorno tra i soggetti – le quattro vie di cui il vincolo é fatto –si accorge che c'é sempre qualcuno che osserva quei movimenti; e afferma con un certo stupore, che sembrava importante riconsiderare l'introspezione in quanto metodo di ricerca per il chiarimento del vincolo interno.
Nel riconsiderare l'introspezione (l'autoossevazione), Pichon-Rivière ci parla di fatto di un'altra introspezione, perché l'osservatore che egli vede non guarda l'oggetto ma il va e vieni specifico o particolare che si stabilisce tra oggetto e io del soggetto:
“La introspección es en realidad un diálogo interno con unobjeto que trata de esclarecer no tanto el objeto en sí sino el vínculo particular que ese objeto establece con el yo del sujeto”(1).
Egli guarda come si rispondono o si parlano le due persone coinvolte nella organizzazione del vincolo e che, mano a mano che si parlano e si rispondono, lo costruiscono.
Da tutto questo transitano sfaccettature manifeste e latenti. Nella riconsiderazione dell'introspezione di Pichon-Rivère c'è un salto in cui è coinvolto il cambiamento di episteme al cui centro c'è un osservatore incluso nel processo che produce effetti nella stessa idea di realtà e del senso stesso di processo.
La “riscoperta” del controtransfert negli anni '50 partecipa a quel cambiamento e diventa il “punto incandescente” da cui osservare il processo analitico che via via emerge più come un vincolo privato tra due persone che una situazione in cui un individuo osserva l'altro. Nel processo si va via via precisando il lavoro di osservazione in quanto funzione che si va differenziando nel gioco che si produce tra orientamento clinico, teoria e tecnica.
Osservazione e ideologie
Il controtransfert dell'osservatore è sempre compromesso nella ricerca, sia affettivamente sia ideologicamente e, l'urgenza di tornare a riflettere sul pensiero ideologico nel quotidiano, è proporzionale alla sua apparente inattualità.
Maurice Leenhard, antropologo e missionario cristiano, nella sua celebre etnografia "Do Kamo. La personne et le mythe dans le monde mélanésien" del 1947, riporta una sua conversazione con un anziano filosofo indigeno sull’impatto della civiltà europea sul mondo dei kanak. Nel corso della conversazione Leenhard aveva suggerito che gli europei avessero introdotto nel pensiero indigeno la nozione di “spirito”.
“Noi abbiamo sempre agito secondo lo spirito” risponde l'anziano filosofo, “ciò che ci avete portato è il corpo”. Per Leenhardt l’affermazione è sorprendente. E' sorprendente perché la nostra ideologia ordina le cose collocando il corpo dalla parte della natura e lo spirito dalla parte della cultura; il corpo dalla parte del primitivo e lo spirito dalla parte del civilizzato.
L'analisi dell'ostacolo ideologico porta Leenhardt a individuare l'ostacolo epistemologico. Emerge che la stessa possibilità di soggettivazione ha come condizione di possibilità un particolare modo di abitare il mondo con il corpo. Il brano suggerisce che prima della dominazione europea, per i kanak il corpo non fosse né un soggetto di esperienza, né un oggetto di discorso; non aveva un'esistenza propria, né un nome specifico con cui essere designato; era soltanto un supporto.
Leenhardt si accorge delle implicazioni profonde connesse a quel modo di pensare il corpo e mette in questione la possibilità di generalizzare la concezione europea di persona, espressa da frasi come “ha un corpo”, “è un corpo”, “è composta di corpo e mente”, “è una mente in un corpo” che nella differenza emerge come una convenzione.
Il grafico mostra un soggetto che si conosce o riconosce, attraverso le relazioni con gli altri, come l'insieme delle relazioni o funzioni che compie (a-b; a-c; a-d ecc...). Il centro vuoto mostra l'assenza di un io che possa sperimentare, svolgere la funzione di sintesi e di osservare.
Bleger, lavorando sul tipo di identità che si va organizzando tra la nascita e l'entrata nella posizione schizoparanoide, riprende il grafico di Leenhardt e parla di io sincretico; in corrispondenza dei segmenti a-b; a-c; a-d colloca in modo geniale un'identità che chiama gruppale o per appartenenza.
La questione dell'ideologia non sembra toccare all'inizio la psicoanalisi. Freud pensava che affidarsi alla Weltanschauung scientifica fosse sufficiente per non incorrere nei pericoli di una lettura ideologica del paziente. Non solo il linguaggio ma anche le strutture ideologiche, i codici precostituiti incidono sulla percezione. Questo è il senso del freudiano “percepire é riconoscere”.
Negli anni '50 E. Pichon-Rivière e Willi Baranger per primi si occupano di ideologia. Chiamano ideologia il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni e valori che orientano un determinato gruppo sociale. Pichon-Rivière sottolinea l'importanza di evidenziare gli stereotipi di un paziente, di un gruppo, di una famiglia perché da essi transita l'ideologia.
L'analisi delle ideologie porta a leggere in maniera critica la vita quotidiana e ad istituire dei nessi tra ideologia e quelli che Pichon-Rivière chiama oggetti idealizzati.
Baranger richiama l'attenzione su quanto sia impossibile l'astinenza ideologica. Osserviamo sempre con uno schema di riferimento. Anche la regola dell'astinenza un po' alla volta appare come inapplicabile perché presuppone l'isolamento di una parte della personalità che non dovrebbe partecipare all'attività analitica. L'interpretazione emerge da una personalità totale, da un analista che agisce da una propria ottica, guidato da un suo insieme ideologico. Ci troviamo di fronte a una situazione paradossale: da una parte ammettiamo la necessità della regola di astinenza e dall'altra riconosciamo che quella regola è inapplicabile.
L'inclusione dell'osservatore
Affronteremo il paradosso con l'inclusione dell'osservatore nella relazione terapeutica che diventerà via via sempre più radicale. Possiamo dire che con l'inclusione dell'osservatore nel campo dell'osservazione la relazione viene in primo piano e con essa la ripresa dello studio del controtransfert e del transfert, modo in cui la relazione appare fin dall'inizio in psicoanalisi. Sappiamo che all'inclusione dell'osservatore corrisponde un momento di grande rottura nel nostro modello scientifico; cambia il modo di pensare la realtà e il nostro vincolo con essa. La realtà non è esterna a noi, siamo inclusi in essa e, in ultima analisi, la realtà emerge nella relazione, nel vincolo.
Con l'inclusione dell'osservatore diventa importante il punto di vista, la prospettiva, il posto occupato o da cui si guarda. Anche in fisica Carlo Rovelli afferma che “Se diamo una descrizione del mondo che ignora i punti di vista, che è unicamente 'dal di fuori' dello spazio, del tempo, di un soggetto, possiamo dire molte cose, ma perdiamo alcuni aspetti cruciali del mondo. Perché il mondo che ci è dato è il mondo visto da dentro, non il mondo visto da fuori”(2).
Alcuni psicoanalisti cercano di capire che cosa significa vedere da dentro; pensando l'uomo in situazione Merleau-Ponty parlava di abitare il posto occupato. In "Attenzione e interpretazione", Bion ci dice che per poter vedere meglio è necessario “accecarsi artificialmente”; considera come aspetti essenziali di questo atteggiamento la privazione, l'isolamento e la solitudine. Lo scopo è di far tacere, momentaneamente nella mente, il rumore delle proprie emozioni e della propria ideologia. Bion era andato a riprendere Freud che in una lettera a Lou Salomè (25/5/1916) scriveva: “So che mentre lavoravo, mi sono artificialmente accecato per raccogliere tutta la luce su un punto oscuro”(3).
Con Freud, Bion cerca un accesso per poter osservare ciò che appariva oscuro, illogico, poco coerente, accidentale o insignificante. Per cercare quello che chiamiamo latente.
Per privazione Bion intende astenersi dal gratificare e agire i propri desideri.
Per isolamento che è importante assumersi e non delegare ad altre persone o teorie la responsabilità dei fatti scelti nella osservazione (io vedo questo; non la teoria mi dice questo: perché diventa applicativo). Per solitudine ci segnala l'importanza di non coinvolgere la propria vita interna ed esterna nel rapporto con l'oggetto osservato.
“La struttura e la consistenza del gruppo interno del terapeuta (coordinatore o osservatore) diventano i fattori che 'rendono possibile' una lettura del gruppo attuale; il gruppo interno è fatto di vincoli" e "il terapeuta lavora sostenuto da una storia incominciata con il suo gruppo familiare, e che continua con il suo gruppo di riferimento attuale”(4). Se la realtà non è più esterna e oggettiva dobbiamo trovare qualcosa che ci permetta di dire dove siamo in un determinato momento, quando qualcosa appartiene a quì, al dentro e quando a là, al fuori.
Durante una seduta un paziente aveva lasciato il cellulare acceso. La persona con cui aveva appena parlato ascoltò tutta lasua seduta. Quando il paziente tornò nel proprio studio, la persona che aveva ascoltato gli chiese: “ma dove si trovava avvocato? non si capiva niente di quello che dicevate! ma di che cosa stavate parlando? con chi stava parlando?”
Per capire il senso di quello che si dicevano, la persona che ascoltava doveva sapere dove si trovasse, che cosa stesse facendo, e chi fosse la persona a cui parlava e che parlava con lui. Praticamente aveva bisogno di conoscere quello che noi chiamiamo inquadramento o setting.
Il setting come organizzatore
L'inquadramento o setting ci permette l'orientamento; è un po' come quelle mappe che ci dicono “tu sei qui”; il setting, il compito prima, le funzioni poi, ci dicono dove ci troviamo in un determinato momento. In una scena di “La voce di notte”, di Andrea Camilleri, c'è un dialogo tra il commissario Montalbano e il suo collaboratore Fazio; si trovano all'ingresso di un supermercato dove il commissario aveva chiesto di essere accompagnato per un nuovo sopralluogo.
Fazio: commissario le posso fare una domanda?
Montalbano: dimmi.
Fazio: ma che dobbiamo cercare nell'ufficio?
Montalbano: non dobbiamo cercare proprio niente.
Fazio: e allora che siamo venuti a fare! Non lo ha già visto e rivisto più di una volta?
Montalbano: si, ma sempre con occhi diversi; la prima volta che sono venuto qua l'ufficio era stato teatro di un furto e io l'ho guardato come un luogo in cui era avvenuto un furto; la seconda volta, quando sono tornato, l'ufficio era stato teatro di un suicidio e io l'ho guardato come il luogo in cui era avvenuto un suicidio; però non l'ho ancora visto come il teatro di un omicidio(5).
L'inquadramento o setting è fatto di invarianti o costanti di spazio, tempo, funzioni e compito; ci permettono l'esame di realtà e funzionano da organizzatori di un processo. Cambiando il compito - furto, suicidio, omicidio - si guarda con occhi diversi il teatro di un evento: apparentemente il luogo rimane sempre lo stesso; di fatto è ogni volta un altro luogo. Incluso in un campo ogni volta differente, l'osservatore organizza ciò che da esso emerge come molteplicità; a partire dal compito la scena, pur rimanendo la stessa, diventa di volta in volta un'altra scena. Con l'inquadramento entra in gioco la nozione di campo. L'inquadramento genera un campo che mette in moto dei movimenti che si vanno organizzando in un tessuto di relazioni. Anche il coordinatore o analista è all'interno di quel campo e perciò stesso partecipa a generarlo; da esso emergono, ordinati in termini dicotomici, i vincoli. Chiamiamo quel tessuto organizzazione vincolare.
Il meccanismo dell'identificazione proiettiva/introiettiva è il modo di quel movimento. L'identificazione proiettiva/introiettiva è anche alla base del fenomeno del transfert. Chiamiamo emergente (6) ciò che ci permette di accedere a quel movimento, rimandandoci o mostrandoci una scena. Il vincolo è fatto di scene. La persona che ascoltava al telefono non riusciva a vedere nessuna scena, nessun testo. Noi cerchiamo di capire l'emergente per capire la scena in gioco (il latente).
Una scena familiare...
Portiamo la scena centrale di un primo colloquio familiare in cui prendiamo come emergente non tanto il livello tematico, ciò che i membri della famiglia dicono, quanto ciò che fanno. Al colloquio sono presenti il sign. N, la sign.ra G e la figlia S. Il fratello maggiore R., in analisi da molti anni, non è presente.
Nel colloquio emerge centralmente una scena: il padre N. sembra assente, isolato; messo fuori, si tiene fuori: non dice niente e nessuno gli chiede niente. G. dice di avere sempre pensato che la figlia fosse indipendente e serena dato che si era sempre dimostrata una bambina autonoma e spensierata fino a sedici anni, quando aveva avuto il “primo attacco di panico”.
S. risponde di essersi sempre sentita sola e abbandonata: “il panico”, dice, “penso di averlo avuto da sempre ... all'asilo ero terrorizzata all'idea che nessuno venisse a prendermi e di essere lasciata lì ... mi sentivo sempre in colpa, si pensi che quando lei (la madre) piangeva mi sentivo angosciata e velocemente facevo un esame: avevo fatto i compiti? avevo fatto bene le cose che dovevo fare? mi chiedevo che cosa avessi fatto di sbagliato... e ancora ... avevo tutto in ordine? Pensavo che piangesse per colpa mia ; ...avevo 5/6 anni....”
G. replica dicendo che l'ha sempre vista come una bambina libera e molto intelligente, mentre R. (il figlio) aveva pianto ininterrottamente giorno e notte dal momento della nascita e aveva smesso di “colpo” quando S. era nata: “si pensi che dalla nursery, ad un certo punto, me lo hanno portato per vedere se con me riusciva a 'quietarsi' ma non si quietava”. R. viene descritto come insicuro, sempre in difficoltà, bisognoso delle attenzioni e cure costanti della madre assorbita da lui per lo svolgimento dei compiti scolastici e in tutte le cose.
Nella interazione che è una non-interazione (J. Bleger, 2010), la famiglia mostra, mettendolo in scena, una modalità di comunicazione in cui ciascuno parla come in un monologo. In realtà, si parla sempre a qualcuno. Non si parla mai con un “oggetto” ma sempre dall'interno di un vincolo.
Nessuno chiede niente a nessuno; con la non risposta cadono le domande nel manifesto ma si mantengono le fantasie nel latente e con esse l'indifferenziazione o simbiosi. Mettendo in primo piano ciò che fanno, appaiono sulla scena dei personaggi apparentemente distanti ma che si trovano in realtà in una condizione di fusione; si presenta una situazione paradossale di essere tutt'uno senza avere contatto con l'altro. Possiamo affermare che l'inglobamento fusionale non solo ha come effetto di evitare di prendere coscienza dell'altro in quanto persona autonoma, ma allontana anche la conoscenza di tutto ciò che non appartiene e non è compatibile con il “sistema fusionale”.
Nel monologo i personaggi vanno paralleli; appare ciò che Bleger mette in evidenza come centrale nella ambiguità. E' sempre importante non soffermarsi solo sull'analisi di quello che i pazienti dicono ma osservare quello che i membri della famiglia fanno tra di loro e con il terapeuta al fine di poter lavorare sulla situazione simbiotica.
Mettere in primo piano ciò che fanno permette di entrare nel deposito incrociato che mantiene bloccato il movimento della identificazione proiettiva/introiettiva e la comunicazione. Nel latente sembrano agire il bisogno reciproco di favorire, per la madre, una idea di figlia perfetta, per la figlia, di una madre che si occupi di lei bisognosa, mentre il padre, rimanendo silenzioso, funziona da terzo escluso, come direbbe Bauleo.
In questo modo stiamo entrando nell'immaginario della famiglia.
Se nel contesto attuale della seduta quello che mostrano è pertinente rispetto al compito per cui sono lì (criterio di realtà), nella sua descrizione la madre mostra di parlare con una figlia ideale che non sembrava avere nessuna corrispondenza con la figlia reale.
Il padre, facendo il terzo escluso, silenzioso ma presente, attivamente mantiene la situazione di fusionalità; il fratello, assente, lascia fuori per tutti il pianto ininterrotto e il bisogno di dipendenza, di cure e attenzioni costanti.
La fusionalità viene utilizzata come difesa dal terrore di “rimanere soli e abbandonati”. Entrando nella scena emergente spuntano degli agglomerati primitivi, che irrompono(7) nella seduta alla ricerca di un'interpretazione che permetta loro di uscire dalla ripetizione o stereotipia.
Lavorare con la nozione di emergente ci permette di uscire da un discorso di mera causalità e di giudizio alla ricerca di un possibile colpevole.
Nella scena, gioca una fantasia o fantasma in cui tutti sono compromessi e a cui tutti partecipano.
Il percorso interpretativo consiste nel dire alla famiglia scena per scena ciò che sta succedendo. L'interpretazione serve per aiutare a trasformare elementi della “partecipazione” (socialità sincretica) in vincolo.
Note
1. Pichon-Rivière E., Teoría del vínculo, Nueva Vision, Buenos Aires, p. 372
2. Carlo Rovelli L'ordine del tempo, Adelphi, Milano, 2017, pag.133
3. Bion W., Attenzione e interpretazione, Armando, Roma, 1973, p.62
4. Bauleo A., Psicoanalisi e gruppalità, Borla, Roma, p.896
5. Camilleri A., (2012) La voce di notte, Sellerio, Palermo, trasposto in film Tv da Sironi nel 2013, dialogo al minuto 35' 46'', www.rai.it.
6. La nozione di emergente è centrale nella Psicoanalisi Operativa. E' quell'elemento che permette di dare un senso alla situazione che si sta osservando. Si presenta come una qualità nuova che ci permette di leggere la scena clinica. Vedi Balello L. e Fischetti R., (1986) "La nozione di emergente nella concezione operativa di gruppo", In AA. VV. "Modelli psicologici e Psicoterapia", Bulzoni, Roma e Balello L. e Fischetti R., (2016) "La notion d'émergente. Dialectique de l'un e de la molteplicité", in Le Lien, n. 53.
7. Utilizziamo il termine “irruzione” per segnalare l'emergere di una qualità nuova nella sedutaSpesso nella rottura dei vincoli fusionali da cui può emergere l'alterità si mostrano elementi del transgenerazionale.
Bibliografia
Balello L. e Fischetti R., (1986) "La nozione di emergente nella concezione operativa di gruppo", In AA. VV. "Modelli psicologici e Psicoterapia", Bulzoni, Roma.
Balello L., (2011) "Nozione gruppale di vincolo e oggetto teorico" in "Revue international de Psychoanalyse de couple et famille", n. 9.
Balello L., (2014) "Pratiche di produzione di soggettività: alcune riflessioni su una linea concettuale Individuo-gruppo-famiglia" in (a cura di Bianchera L. e Cavicchioli G.) "Il lavoro psicosociale con le famiglie vulnerabili. Clinica, teorie e racconti", Unipress, Padova.
Balello L. e Fischetti R., (2016) "La notion d'émergente. Dialectique de l'un e de la molteplicité", in "Le Lien", n.53.
Balello L. e Fischetti R., (2017) "Rileggendo Simbiosi e Ambiguità di J. Bleger" in "Gli Argonauti", n.152. Baranger W., "Psicoanalisis e ideología" in Baranger W e M., "Problemas del campopsicoanalitico", Ed. Kargieman, Buenos Aires.
Bauleo A., (2000) "Psicoanalisi e gruppalità", Borla, Roma.
Bion W., (1973) "Attenzione e interpretazione", Armando, Roma.
Bleger J., (2010) "Simbiosi e ambiguità", Armando, Roma.
Camilleri A., (2012) "La voce di notte", Sellerio, Palermo, trasposto in film Tv da Sironi nel 2013, dialogo al minuto 35' 46'', www.rai.it.
Fischetti R., (2013) "Il concetto divincolo nella psicoanalisi operativa", in (a cura di G. Cavicchioli), "Io-tu-noi l'intersoggettività duale e gruppale in psicoanalisi", F. Angeli, Milano.
Fischetti R., ( 2014) "Glossario blegeriano", Armando, Roma.
Leenhard M., (1947) "Do Kamo. La personne et le mythe dans le monde mélanésien", Gallimard, Paris.
Merleau-Ponty M., (2003) "Fenomenologia della percezione", Bompiani, Milano.
Pichon-Rivière E., (1985) "Teoría del vínculo", Nueva Visión, Buenos Aires.
Pichon-Rivière E., (1985) "Il processo gruppale", Lauretana, Loreto.
Rovelli C., (2017) "L'ordine del tempo", Adelphi, Milano.
(Lavoro presentato alla II "Assemblea sulla ricerca sulla Concezione Operativa di Gruppo", Madrid, 26-28 aprile 2018. Pubblicato in "ÁREA 3. CUADERNOS DE TEMAS GRUPALES E INSTITUCIONALES", www.area3.org.es)