Per funzione terapeutica dell’Istituzione, intendiamo la possibilità di installare dispositivi gruppali nel lavoro con i pazienti e con le famiglie all’interno delle Istituzioni.
Lavorare insieme con i gruppi familiari e le èquipes dei diversi servizi che appartengono sia al servizio pubblico che del privato sociale, in relazione al compito di cura, di assistenza e di presa in carico; avviare processi di deistituzionalizzazione dei sintomi,dei vincoli simbiotici, cronici e di situazioni “ingessate” per dare un nuovo senso, significazione e simbolizzazione. In particolare, porre attenzione e ascolto alle nostre stesse istituzionalizzazioni: deistituzionalizzando i nostri pregiudizi e stereotipi che si incistano nel nostro operare e nelle nostre funzioni.
Articolare nuove comprensioni e concettualizzazioni sulle problematiche complesse, nell’intersecarsi nei diversi ambiti: individuali-gruppali-istituzionali e comunitari, nel processo permanente di andata e ritorno, in un’area di frontiera com’è la disabilità tra il tecnico e il politico.
Il passaggio da un’ottica individuale ad una visione gruppale comporta una profonda revisione, non solo dei nostri modelli professionali e degli schemi operativi di riferimento, ma anche degli stessi contesti in cui lavoriamo.
La formazione e la supervisione, sono stati i percorsi costanti che hanno supportato queste continue revisioni.Il momento topico è stata la realizzazione del Progetto di ricerca sanitaria finalizzata, finanziato dalla Regione Veneto sul “Lavoro interdisciplinare internazionale sulla salute della persona, del gruppo familiare e della comunità” che ha coinvolto professionisti dell’Azienda ULSS 14 (Chioggia-Ve) e Azienda ULSS17 (Monselice-Pd), degli Enti Locali e del Privato Sociale.La ricerca è stata impostata sulla modalità operativa di gruppo e attuata attraverso dei dispositivi che si proponevano come elemento innovativo l'analisi della relazione istituzione-comunità.
Il Prof. Bauleo insieme alla Dr.ssa De Brasi, costruirono nei dettagli il profilo della Ricerca innovativa finalizzata alla salute della comunità. Gli sviluppi e gli effetti di questa ricerca continuano ancora oggi, nei percorsi di Formazione e di supervisione delle équipes, con L. Buongiorno e M. De Brasi. Questi percorsi sono finalizzati ad approfondire una metodologia di lavoro pertinente alla creazione di nuovi modelli organizzativi in grado di rispondere su due livelli:
1. Alla complessità del campo di intervento.
2. Alla possibilità di riflettere sulla propria implicazione.
I nuovi modelli organizzativi, nascono direttamente dalla pratica clinica, per rispondere ad una nuova comprensione dei bisogni e delle richieste (analisi della domanda); situazioni con pazienti gravissimi e in stato di cronicità, che in un primo momento sembravano impossibili da pensare.
La mia linea di pensiero si è sviluppata nel considerare i deficit psichici, i disturbi di apprendimento etc., prodotti da uno stato di indifferenziazione primitiva costituito da una particolare organizzazione “Io-mondo”, dove nei nuclei agglutinati non si è mai operato una discriminazione tra “Io-non Io”, tra “Corpo-Spazio” e “Io -Altro”.
Questo quadro, a mio parere, definisce tutti gli aspetti non sviluppati dei vincoli simbiotici che vanno a costituire una certa psicopatologia nell'organizzazione della personalità e nei deficit psichici.
Inoltre, anche gli stessi professionisti all'interno delle istituzioni sono immersi in uno sfondo di sincretismo, per cui il processo di discriminazione dipenderà dai livelli di clivaggio tra la fissità dei ruoli,la flessibilità dell'organizzazione e l'utilizzo degli strumenti.
Concordo con il gruppo di ricerca spagnolo, sul lavoro in “La simbiosis en la istitucion” presentato alla prima assemblea a Rimini nel 2016 e nello specifico in cui si afferma che ”Vi è la necessità di includere nel lavoro assistenziale le tecniche di Bleger per operare sulla in discriminazione. Come pensiamo queste nuove difese non solo come difese ma come tecniche strumentali? L'indagine e l'esplicitazione o la spiegazione dell'implicito non si riduce unicamente all'integrazione del pre-esistente, se nonché arriva ad ampliare la personalità incorporando nella stessa, elementi che non sono mai esistiti.”
Porterò due esempi:
Il 1° esempio - E' di un giovane disabile psicofisico gravissimo, con assenza di linguaggio e con gravi forme di autolesionismo. Descriverò alcuni cambiamenti che si sono prodotti.
Il 2° esempio - farò una sintesi di una seduta emblematica di terapia gruppale, in cui si è data voce alla paura, alla violenza, ai maltrattamenti subiti dalla maggior parte dei membri del gruppo.
Il primo esempio: arriva al Servizio la richiesta della madre di un ragazzo di 28 anni, con un gravissimo ritardo mentale, comportamenti autolesionisticie assenza di linguaggio, che frequenta un centro diurno per disabili.
Nel 1° colloquio la madre,manifestavala preoccupazione che il figlio non veniva coinvoltoin attività adeguate al profilo di gravità e rimaneva passivo tutto il giorno, sdraiato su di un materassino.
Pensai che la signora formulasseuna richiesta legittima; si poneva il problema di mettere insieme tutti i professionisti coinvolti, come primo passoperuna minima comprensione a questa situazione.
L'idea fu di mettere una prima riunione gruppale: famiglia,coordinatrice ed educatrice del centro diurno, e referenti del progetto educativo personalizzato (P.E.I) dell'Unità Operativa Disabilità Adulta dell'azienda Ulss.
Proposi di lavorare per una volta al mese per un'ora, con il compito di tentare di elaborare una linea educativa-assistenziale adeguata a questa situazione.
Nei primi incontri emergevano letture e interpretazioni sui comportamenti di D. meccanici e stereotipati.
Emergevano accuse reciproche di incapacità, scarsa professionalità e malintesi tra l'èquipe del centro diurno e la famiglia.
Ognuno difendeva le sue ragioni e posizioni.Il mio compito era di mantenere il setting, di segnalare gli ostacoli, l'incapacità di ascoltare le idee di ognuno e trovare un punto comune di comprensione.
Dopo 4 incontri si è manifestato un forte attacco al setting e alla modalità operativa da parte degli operatori del centro diurno i quali ritenevano che questi incontri gruppali anziché risolvere i problemi, creavano più tensioni e aprivano conflitti non controllabili da entrambe le parti.
Pertanto la coordinatrice del CD chiede di sospendere gli incontri perchè riteneva insostenibilile osservazioni e le accuse da parte della madre di D. sul lavoro degli operatori del CD. Passati due mesi, la coordinatrice del CD chiese di continuare il lavoro insiemeperché aveva compreso che in questo spazio gruppale si potevanoaffrontare i conflitti ecapire meglioi malintesi.
A partire da questo momento, ci fu un salto di qualità nella comprensione, nella comunicazione, una maggior esplicitazione del conflitto e un'apertura nello sperimentare nuove attivitàcon il disabile.
Elaborati questi passaggi, veniva posta l'attenzione sulle abilitàdi D., sulle capacità potenziali e sullo studio di materiali adeguati per lo sviluppo senso-motorio e, nello stesso tempo una maggiore “libertà” da parte della famiglia di comunicare sulle relazioni familiari: passando da una concezione di conoscenza esclusiva del figlio ad una ammissione che “A casa non so anch'io cosa fare”.
Scoprivamo idee nuove e si modificavano i vincoli di dipendenza.
Il ragazzo migliorava, stava meno sdraiatosul materassinoe iniziava a camminare prima preso per mano e poi da solo; esplorava l'ambiente e ricercava gli altri compagni.
A tavola aveva individuato il suo posto con gli altri.
Su tutto il gruppo,rispetto ad ogni cambiamento,sortiva un effetto “sorpresa”, di “meraviglia”.
Questi cambiamenti erano inaspettati, lontani dalle vecchie e consuete idee sull'impossibilità di lavorare con queste situazioni gravi.
La sorpresa è stato il passaggio della trasformazione dall’impossibilità alla condizionedi possibilità.
Questi cambiamenti hanno sortito altri importanti effetti.
L'èquipe del CD trasmetteva agli altri operatori del CD stesso, i nuovi elementi sul quale basare le attività e paradossalmente, all’interno del Centro Diurno, si innescava una maggior comprensione delle dinamiche relazionali e dei comportamenti anche degli altri utenti.
Gli effetti si sono amplificati e allargati anche ad altre famiglie e operatori.
Lo strumento del lavoro in gruppo è diventata la metodologia per apprendere gruppalmente le difficoltà e i diversi deficit di comunicazione tra utenti -gruppo familiare -èquipes.
Forse questa è la strada per prevenire il burn-out degli operatori.
2°esempio: sintesi di una seduta gruppale con 8 pazienti, per la durata di 1h e ½ ,una volta al mese. Io coordino il gruppo e una collega fa l'osservatrice con lettura di emergenti a 20 minuti dalla fine della seduta.
Alcuni passaggi per dare un'idea del processo:
Il gruppo inizia, una persona è assente.
Maria parla per prima: "Ho preso una forte paura, ma preferisco aspettare Mauro che arrivi".
Viene sollecitata dal gruppo a parlare lo stesso, non possono aspettare.
Maria dice: "durante la mensa, Mauro si è arrabbiato molto contro una volontaria che gli aveva chiesto un bicchiere d'acqua e una volta riempito lo ha sbattuto con violenza sopra al tavolo, questo gesto violento mi ha spaventato tantissimo”.
Willi chiede al gruppo: ”ma non c'erano gli operatori? Hanno visto la scena?”. Alcuni rispondono di si.
A questo punto segnalo che il problema dell'aggressività in certe situazioni,non dipende dalsingolo, ma vi è una concatenazione di fattori che producono una situazione violenta.
In questo momento nel gruppo entra Mauro.
Maria rivolgendosi a Mauro gli dice che si è spaventata, quando ha sbattuto il bicchiere pieno d'acqua sul tavolo, che hamesso paura a tutti. Gli altri membri del gruppo concordano.
Gianni afferma: ”Si, anche il mio compagno più fragile tremava come una foglia”
Mauro dice: “C'era tanta acqua nel frigo”, Gioia dice: “Quando un compagno chiede qualcosa si dovrebbe aiutare”.
Mauro molto arrabbiato dice: ”Lascia stare!!!“ e si alza di scatto dalla sedia, muovendosi molto agitato per la stanza. Sentendo un clima di terrore che pervade il gruppo, segnalo: “Nessuno è obbligato a venire qui, non si può impedire a nessuno di esprimere la propria paura e la rabbia”.
Giannidice: “Brutta la violenza. Ho sentito alla tv, che un carabiniere ha ucciso i figli e la moglie”.
Marco chiede: “Perchè non esiste un sistema per parlare sulla violenza? Invece di usare la violenza, come si può trovareun modo per non usarla?”.
Willi: “Quando mi arrabbio esco,poi mi tranquilizzo e rientro. La rabbia bisogna lasciarla fuori” e chiede a Marco: “E tu quando ti arrabbi la tieni dentro o la butti fuori?”.
Marco: “La violenza mi viene d'istinto, mi viene un grillo nella testa che mi consiglia di chiedermi perchè non devo usare la violenza e mi dice di provare a capire perchè una persona deve usare il proprio corpo per sconfiggere gli altri. Il corpo usalo per fare il bene; oppure per difendere gli altri”.
Maria: “Non è facile, non possiamo essere nella testa degli altri, essendo un carabiniere non doveva sterminare la famiglia”.
Gioia: “Bisogna stare calmi, si sente tutti i giorni violenza sulle donne, sui bambini, per il lavoro che non c'è, gli anziani picchiati dalle badanti. Cambio canale, mi fanno venire la pelle d'oca”.
Gianni: “Pensa bene, la mamma ha salutato le figlie per l'ultima volta sulla tomba”.
Willi: “Queste cose mi rendono triste. Quando ad Haiti i miei genitori sono stati uccisi, ero piccolo e sono stato male perché ho visto tutto”.
Segnalo che qui si può parlare delle cose dolorose.
Willi inizia a raccontare che ha visto un uomo incastrato tra le lamiere, altri erano sotto le macerie. Dice che per fortuna si è salvato. Ha trovato dei genitori italiani adottivi, se no sarebbe morto. Alcuni bambini di colore sono rimasti uccisi, alcuni si sono salvati.
Pensasempre ai suoi genitori naturali.
Dice ancora: “Mia madre aveva la pelle come me, mio padre era bianco, è morto anche il mio barbiere Daniel, in queste guerre che succedono".
Il gruppo chiede: “E come facevi per mangiare?”
Willi: “Mi davano da mangiare le suore. Mangiavamo con le mani, non c'erano le posate. Anche i vestiti che avevo, ero come mia mamma mi ha fatto,nudo come gli altri bambini Marco si riallaccia a queste cose, all'orrore della guerra e insiste affinché Willi racconti nel dettaglio le sue esperienze traumatiche.
A questo punto metto un limite, poiché sento forte la sofferenza e l'angoscia che invade il gruppo; me inclusa. Segnalo che ognuno può parlare delle propriestorie, se sente che può parlarne. La violenza crea molti traumi. Willi ha detto che è qui grazie ad una suora e a dei genitori adottivi che sono andati ad Haiti a prenderlo.
Qui si sente forte il dolore, perché é stato vissuto, ha attraversato il corpo nudo.
A questo punto il gruppo comincia a parlare delle proprie esperienze traumatiche, di maltrattamenti subite nella scuola, negli istituti e nella comunità.
Sintetizzerò con gli emergenti significativi del processo gruppale della seduta:
Oggi viene il problema della violenza e dell'aggressività.
Il gruppo si chiede perché c'è tanta violenza? Da dove viene e come si può controllare?
La violenza nel gruppo, nella famiglia e nelle istituzioni.
La violenza dei bambini su altri bambini.
La violenza crea dei traumi.
Qualcuno la può esprimere con le parole, altri con agiti corporei.
Quanta sofferenza e quante emozioni.
Come il gruppo si è salvato dalla violenza.
C'è tanto dolore. Come si può sopportare?
Per fortuna in questo spazio gruppale si può parlare.
Così si abbassa l'ansietà, la violenzanel gruppo,altrimenti si può impazzire.
(Lavoro presentato alla II "Assemblea sulla ricerca sulla Concezione Operativa di Gruppo", Madrid, 26-28 aprile 2018. Pubblicato in "ÁREA 3. CUADERNOS DE TEMAS GRUPALES E INSTITUCIONALES", www.area3.org.es)