Se si parte dalla differenziazione tra oggetto teorico e oggetto concreto, o detto diversamente se si differenziano fatto, nozione e concetto, emerge l’importanza e la necessità, quando si lavora con una famiglia o una coppia, che l’oggetto teorico sia un oggetto gruppale.
In questo lavoro ho cercato di individuare alcuni passaggi o rotture interne dell’oggetto teorico della psicoanalisi con cui Pichon-Rivière ha potuto pensare la nozione di vincolo che per la concezione operativa è una nozione gruppale.
In quei passaggi si giocano alcune questioni centrali:
il passaggio esterno/interno, inter/intra relazione;
la questione della fusione/differenziazione
la questione del corpo e dell’io corporeo
la questione dell’osservatore e dell’oggetto teorico (Althusser)
quelle questioni si esprimono in alcune nozioni:
conflitto
identificazione.
scissione.
setting.
Alla fine del 1800 Freud risponde alla domanda che si poneva la psichiatria sul come mai la malattia mentale con l’ipotesi che le persone si ammalino perché hanno dei conflitti.
Le topiche in particolare la seconda, costituiscono il modo concettuale in cui si incarna quell’ipotesi. Nella seconda topica il conflitto, intersistemico nel 23 e intrasistemico nel 32, si esprime di fatto nella nozione come un problema di regolazione del conflitto attraverso relazioni di dipendenza tra e intra i sistemi.
Con la seconda topica “Freud cerca di includere il ruolo svolto dalle varie identificazioni nella costituzione del la persona” (Laplanche, Pontalis; voce “io”, svolta del ’20, linea B), identificazioni attraverso cui sembra transitare la stessa trasmissione.
Articolato dall’edipo di cui il super-io è erede, Freud pensa il passaggio dal fuori al dentro come la trasforma zione della relazione con i genitori, investimento d’oggetto, in identificazione con i genitori; non con le loro immagini ma con i loro super-io.
Nel passaggio ciò che si trasforma sono le tre funzioni costitutive del sistema super-io:
1) autoosservazione, 2) coscienza morale, 3) funzione di ideale;
ciò che transita sono così 1 )dei modi di osservare, 2) dei giudizi di valore rappresentanti della tradizione che persistono attraverso le generazioni, 3) aspetti di ideale che hanno un rapporto con la progettualità e con l’utopia.
Questa immagine che Freud dà della identificazione che “rimanda a una identificazione diretta e immediata che precede qualsiasi investimento oggettuale” (Freud, 1923) e in cui prima “si è l’oggetto”, “si è il seno” e “solo dopo il verbo avere sostituisce il verbo essere” (compendio, ‘38), evoca una idea di identificazione e di trasmissione attraverso le generazioni dove modo di osservare, valori, ideali, si trasmettono in una condizione di fusione.
Il problema teorico diventa il modo attraverso il quale è reso possibile gestire la condizione di fusione.
Fairbairn e M. Klein pongono al centro della loro ricerca la “relazione d’oggetto;” spostandosi, di fatto M. Klein e esplicitamente Fairbairn, dallo studio dell’inconscio, inteso nel senso di oggetto teorico non in senso aggettivale o di latente, allo studio della “relazione”: si impone l’importanza dell’oggetto in sé, di come l’oggetto si pone e risponde al bambino e di quanto il bambino si occupi e preoccupi delle vicissitudini dell’oggetto.
L’articolatore che in Freud è l’edipo, diventa in Melanie Klein e in Fairbairn la “situazione di suzione”: madre-alimentazione-bambino, seno-latte-bocca; in Winnicott, analista-interpretazione-paziente; M. Klein e Fairbairn notano che attorno a questo articolatore si organizzano dei “modelli di atteggiamenti” a partire dall’alternarsi di assenza/presenza, rispettivamente della madre-seno-latte/bocca-bambino (assenza; due), madre-seno-latte-bocca-bambino (presenza; uno); la “dipendenza quasi assoluta” della madre in Winnicott corrisponderebbe a un “quasi” assoluto stato di madre-seno-latte-bocca-bambino, dove il quasi farebbe riferimento a “un po’” di assenza quel tanto che il paziente o il bambino possono sopportare. Da ciò il problema del dosaggio della perdita e recupero dell’oggetto (il fort-da di Freud) che diventa centrale nel gioco di ingestione/espulsione base dei meccanismi della identificazione proiettiva/introiettiva.
Nella nozione di identificazione della Klein identificarsi significa diventare l’altro o perché lo si incorpora o perché ci si incorpora nell’altro. Per mostrare questo movimento la Klein si aiuta con alcuni brani tratti dal romanzo di J. Green “si j’etais vous” dove Green ci mostra anche la paura di rimanere intrappolati dentro l’oggetto, l’altro, (il claustrum).
Articolato dalla situazione di suzione nella Klein e in Fairbairn il conflitto transita dall’alimentazione e diventa un conflitto dell’io con l’oggetto.
Il termine scissione è usato da Freud in senso descrittivo fino al ’27.
Il “feticismo” apre il problema di una Spaltung intrasistemica, interna all’io, e diventa esplicativa dello stato di divisione dell’io.
In Fairbairn e nella Klein la nozione di scissione è usata per spiegare ciò che succede all’io in rapporto all’oggetto.
La forma in cui M. Klein concettualmente esprime il conflitto sono le posizioni schizoparanoide (Fairbairn, Klein) e depressiva attraverso le quali viene data una forma concettuale ai differenti stati in cui si possono trovare oggetto, affetto e io.
Nelle posizioni gli stati dell’oggetto sono uno buono che viene separato o disgiunto da quello cattivo; agli stati dell’oggetto corrispondono due stati dell’io; il tipo di relazione tra oggetto buono è di amore (eros); il tipo di relazione tra oggetto cattivo e io cattivo è di odio (thanatos).
Nella schizoparanoide l’oggetto è idealmente buono o idealmente cattivo, l’affetto è idealmente buono o
idealmente cattivo, l’io è idealmente buono o idealmente cattivo; è di fatto parziale sia oggetto, sia affetto, sia io.
Nella depressiva l’oggetto è buono e cattivo, l’affetto è buono e cattivo, l’io è buono e cattivo; è totale oggetto, affetto, io.
“Ho inoltre avanzato la tesi che il rapporto con tale primo oggetto (scisso) ne implica l’introiezione e la proiezione e che perciò le relazioni oggettuali sono foggiate fin dall’inizio dall’azione reciproca fra introiezioni e proiezioni, fra oggetti e situazioni interni e fra oggetti e situazioni esterni” (scritti pag.466).
Nel va e vieni delle introiezioni e proiezioni (interno/esterno, esterno/interno) è centrale la gestione dell’angoscia persecutoria (svuotamento, divoramento, morsicamento, avvelenamento, bramosia) e depressiva (colpa collegata agli stati di sintesi o di integrazione dell’io).
Malgrado l’importanza che M. Klein dà agli oggetti e alle situazioni esterne, le risposte dell’oggetto (madre), non sono concettualmente incluse nelle posizioni; guardato esclusivamente dall’interno del bambino l’oggetto esterno rimane, di fatto, un oggetto concreto. (madre concreta, genitori, insegnanti concreti).
Non è formalizzata neanche la scissione dell’affetto, dell’io, e “...dell’azione reciproca fra introiezioni e proiezioni, fra oggetti e situazioni interni e fra oggetti e situazioni esterni”.
Con le posizioni l’idea di sviluppo cambia e diventa interno a un processo che va dalla dipendenza o dipendenza infantile alla dipendenza adulta o relativa (madre-seno-latte-bocca-bambino//madre-latte/bocca-bambino).
Agganciato in Freud alle fasi, lo sviluppo diventa nelle posizioni un andare avanti e indietro, mai definitivo, di integrazioni successive, rafforzamento, arricchimento e ampliamento dell’io che, partendo dalla schizoparanoide e transitando dalla depressiva diventa sempre più capace di tornare alla paranoide e a una condizione di fusione con l’oggetto.
La nozione di “relazione d’oggetto” sia nella Klein sia in Fairbairn è una relazione con un oggetto fuso.
Per differenziare concettualmente la situazione di fusione madre-bambino da un situazione differenziata madre/bambino, la Klein introduce la nozione di “rappresentazione d’oggetto”.
Se ci soffermiamo sul senso delle parole usate nella nozione di “relazione d’oggetto” possiamo vedere una incongruenza nell’uso del termine oggetto e aggiungo relazione d’oggetto “internalizzato”.
Nella fusione non c’è a rigore né soggetto né oggetto né relazione; trattandosi di fusione semplicemente non esiste interno/esterno.
Quando dall’interno della concezione gruppale psicoanalitica operativa parliamo di vincolo ci riferiamo alla nozione di vincolo di E. Pichon-Riviére.
Il vincolo di Pichon include un soggetto un oggetto (esterno) e la loro mutua interrelazione che corrisponde al va e vieni che dal soggetto va o torna all’oggetto e che dall’oggetto torna o va al soggetto.
La nozione di vincolo include anche un io che osserva il va e vieni tra soggetto e oggetto il cui mezzo è l’identificazione proiettiva/introiettiva (“credo debba essere rivalutata l’introspezione” dice Pichon).
Il fatto che l’oggetto sia l’oggetto esterno nulla ha a che vedere con la nozione di interrelazione, di relazione o di interazione della psicologia sociale e con l’oggetto teorico della psicologia sociale.
Nel vincolo oggetto, soggetto e la loro mutua interrelazione sono osservati dal soggetto che sperimenta la relazione con l’oggetto esterno e il senso di un suo comportamento (dell’oggetto che gli sorride ad esempio) entrando nell’altro (identificazione proiettiva) e collegando ciò che ha sperimentato come soggetto che ha ricevuto il sorriso, con ciò che sperimenta dall’”interno” dell’altro sorridendo. Quando sorrido (identificazione proiettiva) “so” anche che cosa si prova a ricevere il sorriso (l’aspettativa si baserebbe su questo); ho messo il “so” tra virgolette perché quello che so dipende da ciò che posso/non posso sperimentare; devo/non devo, voglio/non voglio...il conflitto; la rimozione entra in gioco poco dopo l’ident.proiett/introiett.
Lo spostamento della ricerca allo studio della relazione trova nella nozione di vincolo una formalizzazione concettuale in cui sono inclusi soggetto, oggetto esterno e la loro mutua interrelazione. L’interiorizzazione include tutto il vincolo; così nel sadomasochismo, ad esempio, soggetto sadico e oggetto masochista (o girando il vincolo: oggetto sadico e soggetto masochista) e il tipo di interrelazione
(sadomasochista) che intercorre tra l’uno e l’altro possono essere indifferentemente visti dall’interno del soggetto (il “verticale” di Pichon) o dall’esterno (l’orizzontale).
Le nozioni di transfert (qualcosa che dal soggetto viene trasferito all’oggetto) e di controtransfert (la risposta dell’oggetto), parlano di qualcosa che succede all’esterno (tra analista e paziente) a partire da quel qualcosa si fanno delle ipotesi su ciò che succede all’interno del paziente. Nella nozione di vincolo quel movimento e quella corrispondenza (interno/esterno) viene concettualizzata.
Pichon tratta la Spaltung come una scissione necessaria (non patologica) che chiama “scissione strumentale”.
La necessità è di mettere ordine nel caos della relazione tra oggetto e soggetto organizzandola in termini dicotomici.
La nozione di vincolo è centrale per poter vedere come sono organizzate nel processo indifferenziazione-differenziazione funzioni e desiderio all’interno di una coppia o di una famiglia a partire dalle funzioni che l’istituzione famiglia include. Abbiamo già accennato come la trasmissione transiti da quel processo.
La nozione di conflitto elemento fondante della psicoanalisi che fonda e rifonda ogni analisi e seduta, con
J. Bléger diventa un punto di arrivo in un processo evolutivo che pone la “partecipazione o sincretismo come fenomeno originario” (p.118).
Se noi includiamo nel processo evolutivo la “condizione intrauterina”, che Pichon identifica come “simbiosi parassitaria”, la glischrocarica di Bléger corrisponderebbe a delle prime forme di organizzazione della simbiosi, successivamente alla rottura della simbiosi parassitaria, che avviene con la nascita.
Se la nascita segna la rottura (la necessità che ne deriva , di cercare l’oggetto e di attaccarsi al seno, ne marca la perdita) della simbiosi parassitaria, il processo di discriminazione e di individuazione necessita della possibilità di sperimentare l’“assenza” (delle condizioni della simbiosi parassitaria) che in una analisi
corrisponde e si ripete con la fine (l’inizio corrisponde alla presenza) di ogni seduta.
L’assenza (il “non”di Freud segnala al rovescio una affermazione) precede sempre evolutivamente la presenza, dai livelli più semplici a quelli più complessi; il termine “indifferenziazione”, assenza di differenziazione, precede il termine sincretismo, presenza di un nucleo agglutinato.
In qualche misura tutti i pazienti continuano la seduta come se la seduta non fosse mai terminata (dentro-fuori senza soluzione di continuità).
Uno schizofrenico con delirio, uditivo e/o visivo, direttamente può allucinare la presenza.
Noi possiamo dire che “allucina” perché utilizziamo come criterio (di realtà) il fatto che non eravamo presenti, in seduta; l’io del paziente che osserva che non può non allucinare, l’io che sa, utilizza lo stesso criterio.
Il termine “partecipazione” segnala una socialità in cui l’identità è gruppale o senza soluzione di continuità; i membri che ne fanno parte non sono tra loro differenziati e funzionano “spartendosi” dei ruoli che possono ruotare all’interno del gruppo ma che rimangono sempre gli stessi.
La socialità per partecipazione è sempre presente.
Nella socialità per interazione i membri possono interagire tra loro a partire da un “intra”o struttura vincolare internalizzata; il termine “interazione” segnala il movimento struttura vincolare interna/struttura vincolare esterna.
La socialità per interazione può anche non esserci, (quando la totalità della personalità si trova nella glischrocarica) o esserci in misura variabile a seconda dei livelli di integrazione nelle strutture vincolari (stati di oggetto, soggetto, loro mutua interrelazione, della schizoparanoide e depressiva).
Quando Pichon dice che un vincolo è bicorporale ma tripersonale sta parlando di struttura vincolare e di socialità per interazione: se ci sono due corpi necessariamente ci sono tre persone che “funzionano”; nella partecipazione ci possono essere tante persone ma funzionerebbero come un “corpo unico” (come notava Bion negli assunti di base, ad esempio).
La glischrocarica comporta un rovesciamento di prospettiva rispetto a Freud che, pur facendo intravedere in certi momenti altre strade, ha pensato il soggetto come un sistema chiuso (anoggettuale, narcisismo primario) che lentamente si va aprendo (transitando dall’autoerotismo verso l’investimento d’oggetto); la glischrocarica “implica l’ipotesi che l’essere umano parta da una organizzazione aperta che lentamente si va personificando e individualizzando” Bléger (p.188).
La rettifica di Bléger delle “aree fenomeniche della mente” di Pichon si muove sulla stessa linea assumendo l’idea che “un fenomeno per essere psicologico non è necessario che prima sia stato mentale”.
Attraverso la glischrocarica Bléger dà una formalizzazione concettuale alle prime forme di organizzazione della indifferenziazione io-altro che precedono la divisione schizoide.
Mi sembra centrale il fatto che la glischrocarica permetta di darsi una possibile rappresentazione concettuale coerente, del passaggio da una condizione di fusione (io-altro-situazione) a una condizione di struttura vincolare. (Ritengo che questo “momento” mostri, da una prospettiva differente, il problema di Bion della costituzione di un apparato per pensare).
Questo passaggio consisterebbe nel movimento di un nucleo vischioso indiscriminato che come tale si muove e va a costituire una “situazione” sincretica che si esprime concettualmente nella nozione di “deposito” (depositario-depositato-depositante).
I problemi tecnici del passaggio da quella “situazione” al suo spezzettamento attraverso la messa in movimento della identificazione proiettiva/introiettiva diventa la questione centrale per poter gestire quel passaggio e trasformare possiamo dire in incorporabile qualcosa che non risulta tale.
Questo problema diventa la questione della gestione della possibilità di istituire uno “scarto” o distanza minima tra depositario e analista in modo tale che il depositato possa essere preso ma non assunto.
La differenza tra depositato e analista è resa possibile per l’analista, dagli elementi costitutivi del setting; si può esprimere lo stesso concetto dicendo che il setting permette di far entrare il”terzo”.
Quando si lavora con una famiglia, si lavora con il setting che istituisce il contratto terapeutico, e si transita dalle costanti dell’istituzione famiglia (funzioni e compiti, spazio e tempo) a partire dalle quali, in particolare dal compito di procreazione e allevamento, i membri di quel gruppo familiare hanno differenziato e organizzato funzioni e desiderio: ciò che si aspettano, pensano, desiderano significhi essere uomo, donna, marito, figlio, etc.; mano a mano che si entra nella “nuova” famiglia, si esce dalle “vecchie” famiglie.
Il valore euristico della nozione gruppale di vincolo si mostra all’interno di un oggetto teorico che da un lato include Freud, in particolare nel metodo: della libera associazione; nell’uso delle difese dell’arco nevrotico, in primis la rimozione; nel linguaggio dell’inconscio: il processo primario; nell’articolatore: l’edipo, all’interno di una idea di costituzione del soggetto pensato come sistema aperto che lentamente si va personificando e individualizzando nel discrimine tra socialità sincretica (transoggettivo) e socialità per interazione (inter/intra soggettivo), che permette di ricollocare la nozione di “deposito” e il meccanismo della identificazione proiettiva introiettiva etc..
Dall’altro la nozione di setting; usata da sempre ma rimasta sullo “sfondo”, viene arricchita della nozione centrale di compito (Pichon-Rivière , Bauleo, 1964); il setting viene in primo piano con Bléger come ciò che permette, attraverso le costanti di spazio, tempo, funzioni e compito lo svilupparsi di un processo. Nel setting, depositate e mantenute immobilizzate, le parti più immature della personalità vanno a costituire un non-processo. L’attenzione e cura a qualsiasi “movimento” del setting diventa centrale: permette di accedere agli aspetti meno organizzati o indiscriminati e di farli entrare nel processo. Se l’ambiguità, dal punto di vista di realtà, entra nel setting inficia la possibilità stessa di analisi; l’analista interpreta facendo riferimento a dei fatti e il paziente parla facendo riferimento ad altri; Bléger porta l’esempio di un paziente che dopo aver comunicato che non sarebbe andato alla seduta, va , suona, non gli viene aperto e se ne va; la seduta successiva il paziente parla a partire da questo che non comunica, e l’analista risponde a partire dal fatto che il paziente non era andato alla seduta.
Con Bauleo il setting non svolge soltanto una funzione di contenimento di un processo ma ne diventa l’organizzatore; come nell’esempio di Bléger, corrisponde a ciò a cui ci si riferisce per determinare ciò che è reale, e a partire da ciò che è reale, vengono “organizzati” dei fatti; l’interpretazione include il “posto” occupato dal paziente e dall’analista, entrambi diversi nei due casi dell’esempio.
Un brevissimo accenno all’uso del termine “non” usato non nel senso di negazione ma di “negativo”(Hegel).
Dire “io/non-io”mi permette di accedere all’io ma anche a tutto ciò che nel definire ciò che appartiene a quell’io, definisce al contempo tutto ciò che non gli appartiene (non-io); permette di accedere a uno spazio che Wittgenstein chiama “spazio logico aperto” in cui il “non” non è escludente e alternativo (o,o) ma includente (e,e): io e non-io (spazio logico aperto, includente); diverso da io o non io ; (chiuso, organizzato secondo termini antinomici). Il primo serve per “aprire” il secondo per “chiudere”; ritengo che nella clinica servano entrambi a seconda del livello o “momento” in cui si trova il paziente. L’uso includerebbe tutti gli elementi del setting.
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(Articolo tratto da 'Cuadernos de temas grupales e istitucionales', n° 14, Inverno 2010, www.area3.org.es)