Cominciando di nuovo a parlare del gruppo,non ci si può dimenticare della fondamentale distinzione di Armando Bauleo fra esperienza di gruppo e concetto di gruppo. Naturalmente l’esperienza non è mai priva di teoria, quando sperimentiamo l’essere in gruppo siamo attraversati da uno o più concetti. I concetti ci si presentano come forme che contengono l’esperienza.
Se sviluppiamo questo aspetto possiamo anche vedere un collegamento fra il concetto di gruppo e l’apparato per pensare i pensieri di Bion.
Tuttavia questo apparato, noi, non lo concepiamo come un a priori della mente gruppale, se è una forma, ci si presenta come una forma vuota che deve essere riempita.
Pichon Riviere lo descrive come Schema Concettuale e nell’articolo “Empleo del Tofranil en psicoterapia individual y grupal” ci descrive i passi della costruzione di una schema concettuale di riferimento e operativo a partire dalle sue ricerche, iniziate nel 1938, sulla situazione “depressiva di base”.
(Anal. trase, Libro I, Cap. 1)
Ma Pichon Rivière non era un Kantiano, nella sua storia è fondamentale la dialettica:
“questo schema referenziale fu completato in seguito con l’ inquadramento gruppale della situazione depressiva (...). Una spirale dialettica segnala la direzione di questo complesso processo.”
(Empleo del Tofranil en psicoterapia individual y grupal)
L’esperienza di gruppo sembra precedere il suo concetto, ma la dialettica ci mostra una relazione fra questi due momenti che non ha la forma della causalità, in cui l’esperienza sarebbe la causa e il concetto l’effetto.
Le nostre esperienze in gruppo operativo ci hanno mostrato che la spirale è una spirale logaritmica che procede indefinitamente sia verso l’interno sia verso l’esterno: la curva si avvolge intorno al punto centrale senza mai raggiungerlo. La spirale logaritmica è una figura auto simile e, di conseguenza, può essere considerata un frattale. Come è noto, i frattali sono figure che si organizzano attorno a linee di forza che donano loro una organizzazione apparentemente caotica e disordinata. Pichon Rivière ha avuto una relazione mitica con la dialettica. Nelle note autobiografiche ci racconta che quando era bambino e frequentava i giardini di Ginevra ha incontrato Lenin che l’ha accarezzato sulla testa.
Naturalmente una fantasia, o forse no, Lenin era in quel periodo in esilio a Ginevra, ma questo aneddoto ci mostra come Pichon avesse una relazione con la dialettica materialista e non con l’idealismo hegeliano. La presenza della dialettica nella psicoanalisi è importante perché è direttamente collegata all’idea di soggetto. È chiaro che l’idea di soggetto si confronta con l’esperienza di gruppo e produce la dinamica che ci attraversa anche in questa sala. Freud ha una idea contraddittoria della soggettività; ad esempio in “Introduzione al narcisismo” (1914) dice:
"Ci formiamo così il concetto di un investimento libidico originario dell’Io di cui una parte è ceduta in seguito agli oggetti, ma che in sostanza persiste e ha con gli investimenti d’oggetto la stessa relazione che il corpo di un organismo ameboide ha con gli pseudopodi che emette. (...)
L’Io e gli oggetti
La contraddizione tra libido dell’Io e libido oggettuale tornerà, drammaticamente trasformata, in “Al di là del principio di piacere”. Ma già in questo testo del 1914 si può’ notare una dialettica non esplicita fra Io ed oggetti. Anche se l’investimento libidico dell’Io sembrerebbe precedere l’investimento degli oggetti, e quindi configurare una nascita della soggettività individuale a priori, tuttavia l’io si presenta, anche in questa ipotesi, come un primo oggetto di investimento pulsionale. Vi sono tracce del soggettivismo trascendentale di Kant, ma, di più, c’è qualcosa dell’idealismo di Fichte quando afferma:
“Opposto all’Io assoluto cui, per esso può essere opposto soltanto in quanto è rappresentato, e non in quanto è in se, il non-Io è assolutamente nulla”
(Fondazione di tutta la dottrina per la scienza)
Tuttavia la dialettica, come si diceva, non ci permette di stabilire un prima ed un poi, l’Io non è assoluto ma relativo agli “oggetti”. Freud inoltre, quando parla di pulsioni, si riferisce in primo luogo a pulsioni parziali che hanno come meta oggetti parziali, dunque non solo una dialettica fra due poli (l’Io e gli oggetti), ma un momento in cui non c’è l’Io e ci sono pulsioni ed oggetti parziali. Una molteplicità. Un gruppo. Tuttavia, si considera che il soggetto che emerge dalla teoria psicoanalitica sia un soggetto legato alla teoria degli istinti e che non abbia nulla a che vedere con gli oggetti. Credo, da questo punto di vista, sia necessario riferirsi ancora una volta alla citazione del Freud di “Psicologia delle masse ed analisi dell’Io” (1921) che dice:
“la contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse perde ad una considerazione più attenta gran parte della sua rigidità (...). Nella vita psichica del singolo, l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto in questa accezione più ampia, ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale”
Facciamo attenzione a quel “al tempo stesso” che significa, contemporaneamente, che la psicologia individuale ( A) è allo stesso tempo se stessa e psicologia sociale, altro (non A).
Se riportiamo questa affermazione sul piano della logica formale otteniamo che A = non A, ossia viene violato il principio di non contraddizione che, da Parmenide in poi, dice che l’essere è ed il non essere non è. Tertium non datur dicevano gli scolastici riferendosi alla metafisica di Aristotele. Karl Popper aveva dunque ragione quando condannava la psicanalisi ed il marxismo come pseudoscienze?
Un momento, ritorniamo al principio di non contraddizione e vediamolo applicato alla fisica, per esempio con il principio di complementarietà di Niels Bohr che risolve la contraddizione fra la teoria ondulatoria e quella corpuscolare della luce. Anche Armando Bauleo nel libro “Avatares della Clinica”, scritto in collaborazione con Alejandro Alvano, si riferisce alla complementarietà in riferimento alle descrizioni della mente, delle neuroscienze e della psicoanalisi. Dunque Freud è dialettico senza dichiararlo esplicitamente, è contraddittorio nelle sue affermazioni, ma la contraddizione non è paralizzante, anzi mantiene la tensione interna dei concetti che stava fabbricando a partire dalla sua esperienza clinica. C’è, in lui, una dinamica che va e viene, viene e va fra esperienza e concetto, concetto ed esperienza. Appunto una dialettica.
Dialettica e logica formale
Vorrei qui mostrare come la psicoanalisi si sia divisa fra una parte dialettica ed una parte logico-formale. La prima, che possiamo anche chiamare sinistra psicoanalitica, ha sviluppato la psicoanalisi in relazione alla società, si è posta il problema della miseria sessuale delle masse, si è posta il problema della riforma della morale sessuale comune ed ha individuato strutture sociali di pensiero, forme educative che riproducevano la nevrosi.
Dobbiamo dire che su questa strada si era già incamminato Sandor Ferenczi con tutti i suoi studi su psicanalisi e pedagogia nei primi anni del ‘900. Lo stesso Freud, con il lavoro sulla morale sessuale civile e il nervosismo moderno del 1908, avanzava l’ipotesi che la morale sessuale civile pregiudichi la salute e il vigore dei singoli uomini, e che il danno per i sacrifici imposti raggiunga un livello tale che anche la meta ultima della civiltà è compromessa indirettamente. In questo testo sostiene che gli effetti dannosi della civiltà sono connessi alla repressione della vita sessuale dei popoli civili indotta dalla morale civile predominante. Come si vede un’attenzione ai temi sociali importante soprattutto per un possibile intervento preventivo che non poteva non essere un vigoroso ricambio di quella mentalità che il marxismo avrebbe attribuito alla sovrastruttura o alla ideologia dominante.
Freud è più pessimista nel “Disagio della civiltà” pubblicato nel 1929.
Dobbiamo dire che anche il marxismo affronta il tema della dialettica; Karl Popper lo accomuna alla psicoanalisi nella sua condanna. Ma i marxisti meccanicisti, quelli di cui Marx ebbe a dire “je ne suis pas marxiste”, sostenevano che la struttura, cioè l’economia, era la causa della sovrastruttura, la ideologia e la cultura ne erano l’effetto. Ci sono voluti marxisti come Labriola e Gramsci, che avevano assimilato la dialettica hegeliana, per fare capire il rapporto dialettico e non lineare fra i due momenti e addirittura per affermare, come Gramsci, la necessità di una riforma intellettuale e morale degli italiani come obiettivo strategico del “moderno principe” e cioè il rinnovato partito del cambiamento.
Il meccanicismo e l’influenza del positivismo erano presenti anche nella seconda internazionale di Kautski, che prevedeva un’evoluzione spontanea verso il socialismo senza la necessità di una “forzatura soggettiva”, cioè senza la necessità di un soggetto rivoluzionario. E qui torniamo al soggetto ed alla soggettività. L’intreccio fra psicanalisi e soggettività rivoluzionarie è molto antico.
A cominciare da Otto Gross.
Ma, sicuramente, risale al 1919 quando a Sandor Ferenczi venne attribuita la prima cattedra di psicoanalisi nella Budapest rivoluzionaria di Bela Kun. Rivoluzione schiacciata dalla controrivoluzione.
Poi, tutte le sperimentazioni, come quelle di Vera Schmidt con l’asilo psicoanalitico nella Mosca del 1921, confluirono progressivamente in un movimento il cui leader era Wilhelm Reich.
Reich cominciò negli anni ‘20 a Vienna, nella facoltà di medicina, un seminario sulla sessualità che attirò gran parte dei giovani studenti di medicina ai temi psicoanalitici. Il seminario sviluppava i temi della nevrosi in relazione alla repressione sessuale. Era facile per quel momento storico collegare l’organizzazione sociale, la sovrastruttura dei marxisti, alla repressione sessuale, ma Reich, che si iscrisse anche al partito comunista tedesco, ebbe a che fare anche con la repressione stalinista, cioè con quella che si presentava come società rivoluzionaria e che invece cominciava a reprimere la sessualità, a chiudere le esperienze avanzate di liberazione per promuovere l’autoritarismo di una società totalitaria. Reich è il primo che, in ambiente psicoanalitico, parla apertamente di dialettica, ed in particolare di dialettica materialista. Il suo saggio “Materialismo dialettico e psicoanalisi” pone la questione della dialettica materialista come metodo ed analizza delle obiezioni dei “marxisti ortodossi” alla psicoanalisi. Sono obiezioni che arriveranno fino agli anni ‘70 del novecento, e riguardano il fatto che la psicanalisi sarebbe un fenomeno di decomposizione della borghesia decadente e sarebbe una scienza idealista. Reich contesta nel suo articolo entrambe le critiche. Per quanto riguarda la concezione della soggettività dice:
“(...) l’individuo viene al mondo come un fascio di bisogni e di istinti corrispondenti a questi bisogni. L’essere sociale si inserisce immediatamente con i suoi bisogni nella società, non soltanto nella società ristretta della famiglia ma, indirettamente, per l’intermediario dei bisogni economici della esistenza famigliare, nella società nel senso più lato della parola. Riportata nella sua più semplice espressione, la struttura economica della società grazie a numerosi legami - classe sociale dei genitori, condizioni economiche della famiglia, ideologia, rapporti dei genitori tra loro ecc., agisce sull’istinto dell’Io del neonato”
Come si vede per Reich il soggetto non è legato all’istintività, ma si presenta come un essere sociale. Questo è il tema centrale del suo lavoro sulla dialettica materialista e, la sua analisi, offre al marxismo la capacità di capire fenomeni che non possono essere spiegati solo con la base economica. Reich ci ricorda la forza materiale dell’ideologia e come gli elementi inconsci funzionino sulla psicologia delle masse. È attualmente insuperata la sua analisi sulla psicologia di massa del fascismo,con la chiarificazione del ruolo che ha ricoperto la visione patriarcale della famiglia, con l’autoritarismo come valore fondante e il richiamo al mito del sangue e della terra come ricerca di una presunta purezza originaria che sarebbe stata corrotta dalla società democratica. La sua lotta contro l’autoritarismo e contro le società chiuse e totalitarie sono da continuare.
La neutralità e la politica
La psicoanalisi negli anni 30 si illuse di resistere al nazismo negando ai propri membri la possibilità di fare politica. Il mito della neutralità si impossessò dell’istituzione. Anche il controtransfert doveva essere sottoposto al controllo degli analisti didatti. L’analista, si diceva, doveva essere come un manichino che l’analizzando poteva vestire con il transfert. La neutralità doveva essere anche neutralità politica,come se fosse possibile. Marie Langer era una candidata all’analisi didattica e ci racconta che andò a chiedere di essere analizzata ad Heinz Hartmann, il futuro teorico della psicologia dell’Io, che afferma che l’Io si costituisce a partire da una zona a-conflittuale. Dice Marie Langer che Hartmann la guardò dall’alto al basso e le disse: “non credo che lei abbia il denaro per pagarmi gli onorari”. Forse c’era una coerenza fra la sua ideologia dell’Io a-conflittuale ed il suo interesse economico. Nell’istituzione psicoanalitica c’erano altri psicoanalisti, come ad esempio Ricard Sterba, che aveva frequentato il seminario di Reich e che era stato analizzato gratis da Hitschmann, che a sua volta era stato analizzato da Freud. Sterba prese in analisi Marie Langer e le risolse un gravissimo problema provocato da un’analista che l’aveva denunciata perché una sua amica aveva detto in analisi che era stata ad una manifestazione politica ed era stata arrestata. Quelli erano tempi duri. La sinistra psicoanalitica venne sconfitta in Europa ma si trasferì in America; Marie Langer andò in Argentina e contribuì, assieme a Pichon Rivière, Angel Garma e Celes Carcamo, alla fondazione della Associazione Psicoanalitica Argentina. Torniamo alla esperienza di gruppo ed al suo concetto. È evidente che se l’esperienza di gruppo è guidata da un’ideologia individualista non si riesce ad apprendere dall’esperienza, come avrebbe detto W. Bion. Nella psicoanalisi, anche al di fuori del materialismo dialettico, si apre una concezione della soggettività che apre alla gruppalità; sto parlando delle ricerche sul mondo interno dei bambini di Melanie Klein. La Klein, allieva di Sandor Ferenczi ed Imre Hermann, psicoanalista che si è occupato dell’istinto di aggrappamento ed ha preceduto di molti anni le ricerche di Bowlby, studia gli stadi precoci di formazione dell’apparato psichico ed elabora la teoria delle relazioni oggettuali che vede la soggettività necessariamente legata agli oggetti che compongono il mondo interno. Con questa teoria la Klein ripristina la dialettica nella produzione della soggettività. Dobbiamo ricordare che Hermann nel suo saggio del 1924, “Psicoanalisi e logica”, si era occupato a suo modo di dialettica. Ma è negli anni ‘40 che l’esperienza di gruppo di Bion porta ad un concetto in cui l’individuo non è più pensato come una monade senza porte né finestre, ma l’effetto di una molteplicità di legami. Emerge la rete di identificazioni mutue che costituirà il concetto di matrice elaborato da Foulkes.
Esperienze istituzionali
Esperienze istituzionali effettuate con gruppi di militari nell’ospedale militare di Northfield. Sottolineo l’aspetto istituzionale perché queste esperienze di gruppo nascono in questo ambito e ne sono connotate. Non è uno studio di un professionista privato. Anche l’esperienza di avvio dei gruppi operativi è un’esperienza istituzionale. Pichon Rivière ci racconta che nel 1945, nel Servizio per Adolescenti, a causa di uno sciopero degli infermieri, pensò di organizzare dei gruppi di pazienti che venivano informati dai pazienti che stavano meglio. Questa origine un pò mitica, colloca tuttavia i gruppi operativi all’interno di un processo di trasformazione istituzionale. Il soggetto è collettivo. Mano a mano che l’esperienza di gruppo procede si arriva al concetto:
“il gruppo è un insieme di persone riunite da costanti di tempo e di spazio che si articola per mutua rappresentazione interna e che si propone esplicitamente o implicitamente un compito che costituisce il suo scopo o finalità”
Come si può notare in questa definizione, il concetto di gruppo non è più legato alla somma degli individui che lo compongono. L’ insieme riguarda il concetto matematico e la mutua rappresentazione interna è un’applicazione creativa del concetto kleiniano di “mondo interno”; la mutua rappresentazione interna diventerà, in seguito, il gruppo interno. Un gruppo composto dai personaggi ma anche da oggetti parziali, situazioni, emozioni. La migliore descrizione del gruppo interno è in una lettera del 1513 di Machiavelli a Francesco Vettori. In questa lettera il segretario fiorentino parla della sua giornata in “villa” e di come vada in Osteria a “ingaglioffirsi giocando a cricca e a trich trach” ma quando viene sera, tornato a casa si lava, si veste coi suoi panni “curiali” e così rivestito:
“entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono, (...)”
Il gruppo interno è un concetto che fa comprendere l’esperienza, così come il fatto che ogni gruppo si presenta come una rete di vincoli. Pichon elabora il concetto di vincolo a partire dalle relazioni oggettuali, ma nel concetto di vincolo non c’è solo il mondo interno ed il legame con gli oggetti interni. C’è il gruppo esterno, quello concretamente presente. Il concetto di vincolo viene sviluppato contemporaneamente agli studi di Bateson sulla comunicazione e sul doppio legame. Le lezioni raggruppate nel testo “La teoria del vinculo” sono del 1956. Così il vincolo si presenta come un legame a quattro vie che include l’oggetto interno e quello esterno, i canali di comunicazione fra loro compreso il rumore.
Il vincolo è naturalmente dinamico. Il fondamentale articolo di Pichon Rivière e Bauleo “La notion de tarea in Psiquiatria” è del 1964 ed è contenuto ne “Il Processo gruppale. Dalla psicanalisi alla psicologia sociale”. Il gruppo operativo, infatti, si organizza attorno ad una triangolazione che è stata elaborata da Bauleo: si tratta di vincoli reciproci tra gruppo, compito e coordinazione.
Parliamo un momento di questi tre elementi:
a) il gruppo. Come si è visto il gruppo è un insieme e questa idea non è diversa dalla gruppo analisi. Forse Bion, che era nato in India, quando ha fatto l’esperienza di gruppo aveva letto questo brano della Chandogya Upanishad:
“metti questo sale nell’acqua e domattina torna da me. Egli così fece e suo padre gli disse: quel sale che ieri sera hai messo nell’acqua, per favore, riprendilo. Svetaketu cercò il sale nell’acqua ma non lo trovò (...). Bevi un sorso d’acqua da questa estremità; com’è? Salata. (...) è dappertutto uguale. E suo padre gli disse: c’è qualcosa qui, c’è un’essenza che non puoi percepire, eppure c’è in verità.”
Eccezionale metafora che ho appreso in un gruppo coordinato da Bauleo. Si va al gruppo e c’è chi porta acqua e chi porta sale. Se si forma il gruppo si produce l’acqua salata, poi se uno cerca la sua acqua o il suo sale non li trova più. Per questo c’è una resistenza alla gruppalita, c’è una paura di perdere un’identità individuale. Ma l’individuo è il risultato del gruppo, l’individuo non va al gruppo, esce dal gruppo.
b) il coordinamento. È meglio mantenere questo termine perché, per noi, il coordinamento non si identifica con il coordinatore: è un luogo, un vertice del triangolo da cui si può osservare la relazione fra il gruppo ed il compito. Il coordinatore che occupa quel luogo non è il leader del gruppo. La leadership è all’interno, il coordinatore segnala o interpreta gli ostacoli di natura affettiva o cognitiva che il gruppo incontra affrontando il compito. Ma il coordinatore non è il padrone del gruppo, deve progressivamente rendersi inutile, perché il gruppo può apprendere ad autogestirsi e a internalizzare la coordinazione. Mi è capitato di partecipare ad un gruppo operativo di ricerca con la coordinazione internalizzata. Si trattava di un gruppo con molta formazione che aveva imparato a leggere il latente. Tuttavia mantenevamo un osservatore con lettura di emergenti.
c) il compito è il terzo nella dinamica gruppale; a sua volta si scompone in pre-compito, compito e progetto. Queste sono fasi del compito che ha un aspetto manifesto ed uno latente. I passaggi nelle fasi non sono meccanici ma dinamici, ed una fase non è mai conquistata per sempre. Per la maggior parte del tempo si rimane in pre-compito: in questa fase prevalgono gli elementi istituzionali. Come le identità legate a quello che uno fa o a quello che altri dicono di lui.
-Sono un medico, sono un professore di matematica, sono uno schizofrenico, ecc. - Ma quando si riesce ad entrare nel compito appaiono ansie e difficoltà.
Sono ansie persecutorie di fronte alla novità, depressive, per la paura di perdere i punti di riferimento, e confusionali, quando si rompono gli stereotipi, cioè le routines che impediscono al pensiero di fluire liberamente secondo un andamento a spirale dialettica. Lo sviluppo verso il progetto è raro, tuttavia certi gruppi entrano in quella dimensione calda dell’essere che Ernest Bloch chiama “del non essere ancora” e riescono ad aprire dei varchi nell’ordine simbolico dominante. E qui torniamo alla dialettica e alla psicoanalisi: nel secondo dopoguerra, in Francia, si era aperta una nuova via alla dialettica in psicanalisi grazie a Jacques Lacan.
Il soggetto della dialettica
Fu Alexandre Kojève, con il suo seminario sulla Fenomenologia dello spirito, ad introdurre una lettura approfondita di Hegel in Francia. Il suo seminario, tenuto nella seconda metà degli anni ’30, fu seguito tra gli altri da Michel Leris, Merleau-Ponty, Georges Bataille, Andre Breton e Jacques Lacan. Molto si è parlato dell’influenza dello strutturalismo su Lacan ma, in questa occasione, voglio parlare dell’importanza della dialettica hegeliana nella sua teoria. In “Funzione e campo della parola in psicoanalisi”, relazione tenuta a Roma nel 1956, dice:
“Queste osservazioni definiscono i limiti entro i quali alla nostra tecnica è impossibile misconoscere i momenti strutturali della fenomenologia hegeliana: in primo luogo la dialettica del Servo e del Padrone, o quella della anima bella e della legge del cuore, e in genere tutto ciò che ci permette di comprendere come la costruzione dell’oggetto si subordini alla realizzazione del soggetto”
Ma tutto questo lavoro è attraversato dalla dialettica hegeliana, basti pensare all’analisi del caso di Dora, al suo transfert e al controtransfert non riconosciuto da Freud, tutto è visto come una serie di rovesciamenti dialettici.
Pichon Rivière aveva conosciuto Lacan nel 1951, al congresso di psicanalisti di lingua francese. Dice Pichon, in una intervista nel dicembre 1975: “il nostro incontro fu un ‘colpo di fulmine’, credo che Lacan mi sentì lacaniano, così come io lo sentii pichoniano”; poi entra nel merito della dialettica e critica quella che definisce “l’idealismo lacaniano”, cioè la “concezione hegeliana del soggetto”. Parla della dialettica lacaniana e di come manchi il carattere storico materiale del soggetto. Voglio riportare un punto fondamentale di questa intervista. Dice Pichon:
“Nel 1969, discutendo un mio lavoro, Lacan mi chiedeva: “pour quoi Psychologie Sociale, pour quoi pas psychoanalise?”. Credo che la sua domanda sintetizza le coincidenze e le discrepanze. Definire le psicologia in senso stretto come sociale, significa che si enfatizza il problema del determinante in ultima istanza dei processi psichici, il ruolo che hanno le relazioni sociali come condizioni di possibilità dell’ordine umano e quindi dello psichismo”
Si nota la differenza nella concezione del soggetto. Ritorniamo all’articolo di Reich sul materialismo dialettico e alla critica della dialettica idealista di Hegel. Sentendo Pichon sembra di sentire il Marx che vuole rimettere in piedi la dialettica che Hegel aveva rovesciato privilegiando il pensiero rispetto al pensatore. In più, possiamo aggiungere che il gruppo operativo è il luogo della dialettica concreta. La dialettica che troviamo in Eraclito si presenta nei dialoghi platonici come espressione del discorso di gruppo. A parte il Parmenide che tratta espressamente di dialettica, tutti i dialoghi mostrano che la verità non sta in un discorso, ma in molti discorsi e soprattutto sta fra i discorsi.
Il gruppo tuttavia non è solo un dialogo. Nel gruppo accadono fatti che ci portano inevitabilmente al di la del logos, al di la della parola.
L’emergente
Siamo passati dall’idea di portavoce, che è una idea di Pichon, cioè un integrante del gruppo che con il suo discorso enuncia un contenuto latente del gruppo, al concetto più vasto di emergente, che racchiude il portavoce come caso particolare. L’emergente non è logocentrico, è un segno che rimanda ad un latente gruppale e che da un senso alla situazione. Un esempio che per me è stato importante viene da un concerto di Sonny Rollins negli anni ‘70, a Perugia. Eravamo nella piazza della città, tutti attorno al palco con i musicisti, che erano al centro; forse in diecimila. Era una calda notte di estate, con un cielo stellato superbo. Il bianco avorio dei monumenti spiccava nel nero della notte. Eravamo contenuti in quella cornice come in una astronave che viaggiava nello spazio. Ad un certo punto un evento,un emergente, la mezzanotte si presenta sotto la forma dei rintocchi della campana. Sonny Rollins, al primo rintocco, ferma la musica. Silenzio dei diecimila; si ascoltano dodici rintocchi, poi Sonny riprende la musica con quel ritmo.
Sublime. Questa è un’interpretazione di un emergente.
Oggi, qui, nella sala, siamo in una dialettica fra questo mio discorso scritto che sto leggendo. Socrate, nel Fedro, il dialogo di Platone, discute il linguaggio e la scrittura, e dice che la parola ha un padre perché nel discorso orale vediamo e sentiamo il locutore, che è il padre della parola, mentre lo scritto può essere di chiunque. Anche questo mio discorso scritto potrebbe non essere il mio, la scrittura ha una sua autonomia dallo scrittore che la parola non ha. In quel dialogo Platone parla anche di Thot, considerato come l’inventore della scrittura. Thot magnifica al faraone la sua invenzione e ne mostra il suo aiuto alla memoria. Il faraone dice che la scrittura non aiuterà la memoria ma la ucciderà perché la scrittura ne prenderà il posto. Questo magnifico dialogo ci serve in questo discorso per pensare a come l‘esperienza di gruppo si trasformi in concetto e come avvenga la trasmissione delle conoscenze in questo campo. La scrittura del gruppo non è sufficiente per apprendere a coordinare o ad osservare, è necessario passare attraverso l’esperienza.
Le scuole
Così ritorniamo, dopo un giro di spirale, all’esperienza di gruppo e alla dialettica fra educatore ed educando. Negli anni ’50, Jacques Lacan fondava la sua scuola, e così faceva Pichon Rivière, solo che la scuola di Psicologia Sociale aveva uno specifico modello didattico basato sul gruppo operativo. L’informazione, in questo modello, viene elaborata dal gruppo che ha, come suo compito, l’apprendimento. Bauleo ha descritto magistralmente l’apprendimento in gruppo in un suo articolo e l’ha praticato in gruppi e in istituzioni. Il gruppo che lavora su un’informazione, la smonta e l’affronta nei suoi aspetti cognitivi ed affettivi (ad esempio: informazioni sulla fobia o sulla paranoia producono alti livelli di ansia che possono bloccare l’apprendimento; oppure un’informazione che introduce il concetto che la malattia non è un fatto individuale ma si estende in un ambito famigliare ed istituzionale, può incontrare un ostacolo epistemologico alla sua comprensione). L’ostacolo può essere l’ideologia individualista, che va interpretata. Questo metodo è basato sull’idea di un soggetto collettivo dell’apprendimento che può diventare soggetto collettivo di enunciazione, come avrebbero detto più tardi Deleuze e Guattari. Così, qualsiasi informazione, ad esempio la teoria psicoanalitica, non assume la qualità del dogma, il gruppo la deve fare sua, la tratta come se fosse una costruzione, la smonta e poi la rimonta secondo la propria esperienza, secondo il proprio schema di riferimento concettuale ed operativo. Qui, parliamo di una dialettica concreta. Negli anni ‘50 e primi anni ‘60, José Bleger, il rabbino rosso, lavora sulla dialettica materialista e scrive un testo che intitolerà “Psicanalisi e dialettica materialista”, forse per non riprendere direttamente il titolo di Reich che godeva fama di “eretico”, visto che era stato espulso dall’Associazione Psicoanalitica e dal Partito Comunista. Due istituzioni in cui ortodossia ed eterodossia hanno prodotto danni devastanti. Circolano i testi di Henri Lefebvre. Bleger e Bauleo traducono Georges Politzer, un critico spietato della psicoanalisi dal punto di vista del materialismo dialettico. In quella fase, che gli analisti istituzionali francesi potrebbero chiamare istituente, Armando Bauleo, allievo di Pichon Rivière ed analizzato da Marie Langer, scrive un testo che intitola “Marxismo e psicoanalisi, vicissitudini di una relazione”. Torna, prepotentemente, in questo percorso, il tema della dialettica materialista e del rapporto con la psicoanalisi. Marie Langer e Armando Bauleo, assieme ad altri analisti, contestarono il congresso dell’Associazione Internazionale Psicoanalitica, a Roma nel 1969, sui temi del rapporto con la politica, sulla formazione e sui gruppi. Nei primi anni ‘70 fecero un viaggio in Unione Sovietica ed incontrarono, a distanza di 40 anni, le stesse critiche alla psicoanalisi che aveva affrontato Reich, a cui risposero con un articolo intitolato “Quel che pensiamo di quel che voi pensate della psicoanalisi”‚ dove affermano: “Freud non è stato un marxista ma la dialettica ammette la nozione di conflitto”. Bleger, inoltre, elaborò una psicologia degli ambiti che permette di applicare agli interventi multipli la concezione del soggetto come essere sociale. Bleger, infatti, dice che possiamo pensare ad un individuo, con le sue specificità, contenuto in un ambito gruppale e famigliare, che, a sua volta, è contenuto in un ambito istituzionale, che è contenuto in un ambito comunitario. Recentemente, ho proposto un quinto ambito, l’ambito globale, che corrisponde ai processi di globalizzazione che, nell’ultima parte del XX secolo, hanno investito il pianeta e condizionato tutti gli altri ambiti. Con questa considerazione entriamo direttamente nel tema di questo lavoro, e cioè il gruppo operativo come produttore di ordine simbolico.
L’ordine simbolico
Dobbiamo, in primo luogo, cercare di definire che cosa intendiamo per ordine simbolico. Non possiamo prescindere dagli studi di Levi Strauss e dalla linguistica strutturale di De Saussure. Jacques Lacan individua nell’etologia alcuni significati simbolici come, ad esempio, quando le rondini di mare si passano un pesce senza mangiarlo; evidentemente quel pesce è un segno per qualcosa d’altro. Forse l’inizio della migrazione. Oppure certi vasi troppo grandi, certe armature troppo pesanti per essere usate, forse significano altro, un patto di alleanza e così via. L’ordine simbolico è anche l’ordine del discorso, ma è un ordine che, di nuovo, non è naturale, non è sempre uguale a se stesso. Non è un destino. Il concetto di struttura che lega un significante ad un significato non è definito una volta per tutte. Non esistono strutture originarie, come ha dimostrato Umberto Eco ne “La struttura assente”. Dobbiamo, a questo punto, immettere alcuni concetti di semiotica, ed in particolare dobbiamo uscire dal dualismo di De Saussure in cui a un significante corrisponde un significato secondo un determinato codice; invece nella semiotica di Peirce troviamo una triangolazione fra segno, oggetto ed interpretante. Il segno, per Peirce, è un qualcosa che sta al posto di qualcos’altro ed ha un rapporto con l’oggetto che può essere iconico, indicale e simbolico. Il rapporto simbolico è del tutto arbitrario ed il significato dipende dal codice. Ora, un gruppo che è stato convocato da un compito costruisce un proprio codice in base al quale attribuisce significati a ciò che viene detto ed anche a ciò che accade. La funzione interpretante è appunto caratterizzata dall’attribuire significati a significanti. Il codice che si produce in un gruppo è una sorta di copione che aggiudica ruoli che, a seconda dei casi, vengono assunti o rifiutati. Da dove proviene questo codice? A volte, osservando i gruppi che si incontrano per le prime volte, ci si presenta una scena che di volta in volta può essere il Pirandello di “Sei personaggi in cerca d’autore” o il Beckett di “Aspettando Godot”. Per inciso Beckett era stato in analisi da Bion e in “Aspettando Godot” si è costantemente nell’assunto di base dell’accoppiamento, quando il gruppo è nella “speranzosa attesa” che arrivi un messia a risolvere i problemi. Noi diremmo che quel gruppo è nella fase di pre-compito, non lavora, attende speranzoso chi lavorerà per lui. È una resistenza. Dunque, da dove viene il codice che aggiudica ed attribuisce i ruoli?
Appare quasi sempre un mito che riguarda l’origine della legge, l’origine della proibizione. In un ambiente occidentale o di cultura occidentale è evidente l’emergere di uno strato ideologico profondo, è il mito della conoscenza come trasgressione. Da Adamo ed Eva a Prometeo ed alla legge che proibisce di conoscere. La conoscenza è anche la sessualità, c’è il piacere di conoscere e c’è la paura di essere puniti. Qui, cominciamo a vedere che se un gruppo lavora sul compito, emergono elementi di novità che provocano paura. È in gioco l’aspetto creativo del gruppo.
Il processo creativo
Pichon Rivière aveva studiato profondamente “Il processo creativo”, così si intitola il terzo volume della sua opera sottotitolata “Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”. Pichon, studiando il Conte di Lautremont, considera il perturbante de “I canti di Maldoror”, come la cifra della creatività. Freud aveva definito il perturbante l’unheimlich, l’aspetto non famigliare nel famigliare. Estendendo questo concetto, Pichon pensa che l’atto creativo sia perturbante per la comunità, le istituzioni, il gruppo stesso cui appartiene il creativo. Questa concezione ci fa pensare ad uno psicotico all’interno di un gruppo famigliare e a come i suoi aspetti creativi, di linguaggio e di comportamento scatenino la paura. Un gruppo, per cominciare a lavorare, ha la necessità di prendere le distanze dalle routine della vita quotidiana, lo spazio-tempo del setting si presenta come quello spazio vuoto di cui parla Peter Bruch a proposito dello spazio scenico; quello spazio può essere riempito dalle fantasie dell’immaginario gruppale, ma fino a che non si riesce a fare il vuoto, lo spazio è pieno dell’immaginario sociale, è il territorio delle ideologie dominanti. Cornelius Castoriadis parla di significati immaginari sociali che caratterizzano un momento storico sociale. Per noi, sono un determinato ordine simbolico. Quell’ordine si presenta come un ostacolo al lavoro del gruppo. Dunque: che cosa intendiamo per ordine simbolico? Già si è detto che il simbolo è un segno che ha un rapporto arbitrario con il suo oggetto, quindi per noi non c’è nessun simbolismo mitico, come non c’è nessun codice originario in grado di spiegare i simboli universali. Non ci sono archetipi. Già Ludwig Wittgestein, nel suo “Tractatus”, aveva cercato un grado zero dei possibili linguaggi, una lingua pre-babelica, ma si era poi accorto che non esiste parola senza il parlante e che i parlanti modificano continuamente i codici. Così, per noi, il simbolico non è un ordine strutturale e strutturante, fuori dal tempo, che si ripete e deve ripetersi sempre uguale a se stesso. Questo, nei gruppi, appare come lo sfondo su cui iniziare il proprio lavoro. Dobbiamo anche considerare che l’ordine simbolico in cui siamo immersi è caratterizzato da quello che Thomas Khun chiama un paradigma. Viviamo nel paradigma individualista. Michel Foucault, in “Sorvegliare e punire”, ci mostra il controllo panottico, in cui il sorvegliante vede e non è visto: questo controllo non è limitato alle carceri ma si è esteso in tutta la società. Le telecamere ci osservano nella via, nelle stazioni, nelle banche, e così via. Non ha importanza che ci sia materialmente un occhio che osserva tutto, l’importante e che si sappia che ci può essere. L’osservazione è sull’individuo. I dispositivi panottici frazionano l’individuo e lo separano dai suoi vincoli, l’individuo si controlla meglio nella cella del carcere o nella cella del suo cellulare che fa sapere dove si trova. Dunque questo ordine simbolico dominante vuole classificarci come individui che fanno determinate attività e che propendono per i consumi che sono previsti dalle tracce che lasciamo con le carte di credito. Lungi dall’essere una struttura fuori dal tempo, l’ordine simbolico è il risultato della produzione capitalistica che è diventata una produzione immateriale. Già Marx segnalava che la merce non veniva prodotta per il suo valore d’uso ma per quello di scambio, e parlava di feticismo della merce. Walter Benjamin ha descritto il sex appeal dell’inorganico e Naomi Klein ha evidenziato che la Nike produce un simbolo: il “baffo”, cioè un rapporto arbitrario fra segno e significato. Indossare indumenti con quel simbolo genera un effetto che è il risultato della produzione simbolica di quello che chiamiamo semiocapitalismo. Egualmente, la riduzione dell’essere al fare permette l’emergere di personalità che Bleger chiamava “fattiche”, e che sono state studiate negli anni ‘60 da Mashud Khan, ma anche da Ronald Laing nel suo saggio su “L’io diviso”. Queste routines stereotipate attraversano la vita quotidiana e organizzano le azioni degli esseri umani secondo un preciso ordine che segmenta il vivere sociale secondo un controllo biopolitico. È il flusso mainstream dei media che alimenta questo vero e proprio stato di coscienza ordinario che è costituito da stereotipi e pregiudizi. Un gruppo operativo comincia il suo lavoro quando si distacca da questo stato di coscienza ordinario, da questo ordine simbolico dominante e comincia a produrre il proprio immaginario. Ma quando ci si riesce a distaccare dalle ripetizioni, quando le ripetizioni del fare non sono più noi, esse ci appaiono perturbanti. Questo accade perché ci vediamo come da fuori, ed assumiamo in questo la tematica del doppio: siamo noi quel medico, quel professore di matematica, quel cameriere che ripetono gli stessi atti come un automa? Dice Pichon in “Lo siniestro en la vita y en la orba del conde de Lautremont”: - El factor de la repeticion involuntaria es solo lo que nos hace siniestro lo que en otra circostanziaste seria inocente, imponiendose asi la idea de lo nefasto de lo ineludibile”.
Le coazioni a ripetere
Queste ripetizioni o coazioni a ripetere non sono elementi naturali, non fanno parte di un istinto di morte, ma sono stereotipie che impediscono il pensiero e schiacciano l’essere umano in automatismi, in linee prevedibili di comportamento che sono ricercate dal controllo biopolitico dei comportamenti. Sono l’effetto della produzione semiocapitalista. In sostanza, ci troviamo di fronte ad un dominio della falsa coscienza che viene dissolta dal gruppo operativo che va nella direzione della presa di coscienza. Il momento creativo nel lavoro del gruppo si accompagna alla paura, la paura che deriva dalla rottura degli stereotipi e dal manifestarsi del momento delle possibilità. Le routines istituiscono il momento della vita quotidiana, riducendo al massimo il campo del possibile, là, dove tutto si ripete, le possibilità di cambiamento non esistono, ma se il pensiero stereotipato si rompe, emerge il momento dei possibili e questo momento si accompagna alla ansia. La liberazione del pensiero porta con se la paura di impazzire, la libertà di dire si accompagna col timore di produrre escrementi e di essere derisi o peggio di essere colpevolizzati. C’è la paura di diventare capri espiatori, di essere condannati ed emarginati. Meglio ripetere, meglio stare su ciò che si conosce. Il gruppo operativo lavora su questa situazione istituita ordinariamente, come diceva Georges Lapassade, per permettere l’uscita da un istituente ordinario che lascia agli integranti del gruppo la possibilità di abbandonare le loro identità istituzionali e simboliche per sviluppare un immaginario gruppale che li immette in un altro stato di coscienza, che non è più la coscienza individualista ordinaria della personalità fattica, ma la coscienza della gruppalità, la percezione di essere soggetto collettivo.
Due esempi
In conclusione, vorrei portare due esempi di come un gruppo può produrre un diverso ordine simbolico. Il primo esempio si riferisce ad un gruppo terapeutico che ha come compito “parlare degli ostacoli, difficoltà e problemi che impediscono di realizzare i sogni, i desideri ed i progetti, e di tutto quello di cui si vuole parlare”. Per un primo tempo, le resistenze individuali impedivano l’emergere dell’immaginario gruppale; qui furono i sogni a svolgere la funzione di liberare la creatività ad attingere all’immaginario radicale di cui parla Castoriadis. Un sogno indicò il percorso comune che il gruppo aveva iniziato: erano un gruppo di ciclisti che attraversavano la via Roma, ma non andavano a Roma, andavano in una altra direzione. Questo sogno di movimento poteva indicare la fantasia che il gruppo facesse un viaggio, ma era un viaggio che allontanava dal centro del cattolicesimo, dall’ordine simbolico cui si sentivano appartenere, malgrado nessuno fosse praticante né cattolico dichiarato, ma in Italia, come ha detto Benedetto Croce più di 100 anni fa, ancora viviamo immersi in una cultura per cui è impossibile non dirsi cristiano. Ma il gruppo desiderava allontanarsi da quella cultura. Un altro sogno chiarì la direzione del viaggio:
“sta pensando di partire, ma così tanto per fare... è deluso... pensa di partire per Londra.”
È la via francigena al contrario. Il gruppo vuole andare a Londra, che nell’immaginario è la libertà. Pensa al lavoro sul compito come ad un viaggio verso la liberazione da una ideologia della colpa. In questo percorso produce sogni che indicano un processo di cambiamento dei vecchi vincoli famigliari e di costruzione di nuovi vincoli provvisori che permettono l’elaborazione dei traumi dello schema di riferimento primario. Qui, la spirale dialettica ci si presenta come un frattale, una forma in movimento che va progressivamente verso l’elaborazione di un nuovo ordine simbolico in cui le differenze non sono colpevolizzate ma valorizzate.
Il secondo esempio si riferisce ad un gruppo di reclusi per la lotta armata nel super carcere di Palmi in Calabria metà negli anni ‘80 del secolo scorso. Tutto il movimento era stato sconfitto, non vi erano più prospettive, le stesse identità di resistenza che avevano permesso ai militanti la sopportazione delle condizioni durissime della reclusione erano entrate in crisi. Per contro, la legge del tempo li classificava secondo un preciso ordine simbolico. Potevano essere “pentiti” ed accusare di correità i propri compagni ed ottenere considerevoli sgravi di pena. “Dissociati” cui si chiedeva una chiara presa di distanza dalle scelte del passato. Chi non accettava queste proposte era “ irriducibile”, cioè chi non poteva essere ricondotto ad una delle categorie sopraelencate e continuava con le idee che lo aveva condotto nel super carcere. Ma questo gruppo di 16 militanti non accettava quell’ordine simbolico e, per resistere al carcere, si inventarono un’altra identità, quella di un gruppo di sognatori. Decisero di comunicarsi i sogni che facevano e di discuterli assieme senza seguire nessuno schema interpretativo, se non quello che un sogno ne avrebbe richiamato un altro e così via. Nel super carcere il controllo è all’estremo limite, la socialità è limitata ad un’ora, tutto ciò che i reclusi si scambiano è sottoposto a censura, così che per comunicarsi i sogni usavano le tecniche della clandestinità. È incredibile la somiglianza con l’astuzia del desiderio per vincere la censura onirica di cui parla Freud ne “L’interpretazione dei sogni”. I sogni venivano così trascritti e discussi e mostravano la realtà cui erano sottoposti i reclusi, la sessualità mutilata, la ricerca degli affetti, il desiderio di libertà. Questo lavoro permise la resistenza di questo gruppo e l’invenzione di un nuovo ordine simbolico che non era imposto ma proveniva dall’elaborazione del gruppo dei sognatori. Da quel gruppo prese origine una cooperativa che si chiamò “Sensibili alle foglie”: la cooperativa è una cooperativa editoriale che si occupa di testi, come memoriali, che provengono dalle carceri e dai manicomi e di ricerche socio-analitiche sulle istituzioni totali. Assieme abbiamo ricercato sugli stati modificati di coscienza, che riteniamo una risorsa dell’essere umano e non una psicopatologia. Questi sono due esempi in cui la narrazione in gruppo dei sogni, cioè la materia immaginaria per eccellenza, è stato l’elemento creatore che ha permesso un cambio di registro che ha portato ad un ordine simbolico che non era più imposto dall’esterno, ma effetto della creazione del gruppo. Questa creazione non è prevedibile, la linea della produzione, nel gruppo, funziona come un volo di Levy , per un po’ ci si concentra attorno ad un territorio concettuale prossimo, poi non accade niente per un lungo periodo e, improvvisamente, in un altro luogo molto distante, appare di nuovo una produzione concettuale. Come gli squali quando cacciano. Melville ci parla di certe carte segrete del capitano Achab, lui sapeva dove sarebbe comparsa la balena ed il Pequod era li ad aspettarla.
Così un gruppo operativo può elaborare questo sapere non per uccidere la balena ma per addomesticarla nell’ordine simbolico che verrà.
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