Una premessa
Il titolo dice: donne, figli, lavoro; una virgola come un sospiro, una sospensione tra le parole... come unirle?
Da alcuni anni ormai i dati relativi al bilancio demografico della popolazione residente in Italia, resi pubblici dall’Istat, rilanciano le preoccupazioni per la continua diminuzione della natalità e della fecondità. Tra allarmismi catastrofici, politiche oscurantiste, richiami alla famiglia tradizionale, sembra che l’impotenza regni sovrana e guardare in faccia la realtà, impossibile.
Poiché la maternità può essere una libera scelta e le donne vogliono poter lavorare, anche dopo la nascita dei figli: sarebbe diventato questo il problema? No, sono le donne che lavorano di più che fanno più figli (in controtendenza a decenni fa, lo vedremo più avanti), se al lavoro si accompagnano misure di welfare adeguate. Sì, queste misure non ci sono e nessuno è in grado di pensarle, di proporle. Le persone vivono in un tempo con la testa rivolta all’indietro?
Nel lavoro di ginecologa all’interno di un Consultorio Familiare, il rapporto tra natalità e attività lavorativa si è presentato negli anni con aspetti sempre più destabilizzanti per le donne in gravidanza che riferiscono la possibilità di discriminazioni, la percezione di un clima pesante e il timore di azioni concrete nell’ambito del lavoro.
Anche le considerazioni demografiche possono celare una violenza latente quando “insistono” sulla “scarsa propensione degli italiani alla natalità” e sugli effetti negativi che, a cascata, tutto questo provocherà sul “sistema Italia”, senza valutare altri aspetti.
Indagare sulla complessità dei processi e del contesto è l’oggetto di questo studio.
Natalità e fecondità
I Report dell’Istat sui dati della natalità scatenano da alcuni anni commenti costernati, che parlano per lo più della scarsa propensione delle donne ad avere figli; eppure nel 1995 si era raggiunto un tasso di fecondità di 1,19 figli per donna, il minimo storico, senza suscitare scalpore. Nel 2018 si è continuato a mettere in evidenza il dato Istat (2) secondo cui la differenza nel numero di nascite tra il 2008 e il 2016 è di segno negativo (100.000 nati in meno) e a discutere sui fattori che di anno in anno riducono il tasso di fecondità; il numero medio di figli per donna è sceso all’1,34 nel 2016, mentre il numero calcolato per le donne italiane è di 1,26.
La questione demografica è una questione politica, che la politica continua ad ignorare; i governi intervengono con bonus e incentivi sempre ballerini e insufficienti, un paternalismo ridicolo rispetto alle necessità (3).
E’ scattato l’allarme quando ci è resi conto (dati alla mano) che anche tra le donne straniere si registrava una diminuzione della fecondità e che questo non avrebbe più compensato, nel tempo, lo squilibrio nel ricambio generazionale.
Si è guardato alla crisi economica; ma la crisi di per sé basta a spiegare i dati italiani sui tassi di fecondità? Se valutiamo i numeri di confronto rispetto ad altre nazioni europee vediamo che nel 2014 (fonte dati Eurostat) stavano al di sotto del nostro tasso di fecondità, allora all’1,37, la Spagna, la Polonia, Cipro, la Grecia e il Portogallo; altre nazioni avevano un tasso di fecondità molto superiore, tra 1,80 e 2,00: Inghilterra, Svezia, Islanda, Irlanda, Azerbaigian, Georgia e Francia (riportati in ordine crescente).
La Francia (che ha attualmente un tasso di fecondità intorno ai due figli per donna) ha attivato politiche per le nascite dopo la seconda guerra mondiale: una politica di servizi, di benefit e di garanzie per il mantenimento del posto di lavoro, che sono proseguite negli anni proprio per contrastare il calo delle nascite.
Anche in altri paesi, così come nelle diverse regioni italiane, i movimenti demografici hanno un trend più positivo dove c’è maggior offerta di servizi, di benefit e di lavoro per gli uomini e per le donne. Il tasso di natalità dell’Alto Adige, l’unico a essere in crescita, ne è un esempio e conferma anche la correlazione tra la partecipazione piena delle donne nel mondo del lavoro ad una crescita dell’economia.
L’allarme
Il Ministero della Salute nel 2016 ha programmato, (per giunta con il contributo di ginecologhe tra le più avanzate nel loro campo) varie iniziative in occasione del “Fertility day”, in cui nei fatti veniva rimandata la responsabilità della bassa natalità alle giovani donne, poco “accorte” e poco informate (4). Si è trattato di una campagna di comunicazione assolutamente inadeguata nei modi e nelle forme, ma trattava un tema vero legato alle difficoltà di decidere quando avere figli.
Il tasso di fecondità aveva raggiunto il suo livello più basso già negli anni ‘90, senza destare particolari riflessioni, salvo i dibattiti sui “mammoni”, sui giovani che non vogliono assumere responsabilità, sulle “donne in carriera” che antepongono le loro scelte professionali alla vita familiare. Queste considerazioni, che non hanno suscitato particolari proteste, rientravano evidentemente in una visione corrente sulla famiglia e mascheravano i cambiamenti in atto.
Le possibilità contraccettive hanno permesso alle donne di uscire dalla “gabbia” del loro destino biologico, ma quali scelte hanno? Vorrei porre l’attenzione sull’aumento in Italia del numero di donne senza figli (circa 1 su 4 nel Nord e 1 su 5 al Centro per la generazione del 1976) e sulla elevata frequenza di donne con un figlio unico. Il Report Istat del 28 Novembre 2017 (Natalità e Fecondità della Popolazione Residente. Anno 2016) a questo proposito riporta un dato fondamentale: solo l’1,8% delle donne dai 18 ai 49 anni senza figli ha dichiarato che l’avere figli non rientra nel suo progetto di vita.
Ci sono anche in Italia studiosi e demografi (cito Giampiero Dalla Zuanna e Guglielmo Weber in "Cose da non credere; il senso comune alla prova dei numeri", Laterza, 2011) che, partendo dai luoghi comuni, entrano nella concretezza dei cambiamenti sociali.
Nel lavoro come ginecologa e psicoterapeuta ho compreso come sia fondamentale valutare anche altri fattori che entrano in gioco, sia nella correlazione tra natalità e tasso di occupazione femminile sia sul piano delle relazioni, se vogliamo avvicinarci ad una visione complessiva. Si sono così presentati ostacoli e difficoltà che si frappongono ai desideri e ai progetti di vita, poi anche la biologia può presentare il conto, agli uomini e alle donne.
Continuando a parlare di percentuali di fecondità al femminile, si mette in ombra il fatto che la propensione ad avere figli è delle coppie, non delle donne; per le donne che lavorano, intorno ai 30 anni comincia ad affacciarsi il desiderio di maternità, insieme alle preoccupazioni per le ripercussioni sul lavoro.
Se la coppia è di coetanei, inizia una biforcazione sulla percezione dell’età che porterà a posticipare, a tralasciare, a ridurre il numero di figli; d’altra parte, i dati sull’occupazione giovanile parlano chiaramente di soggetti che si trovano a vivere in una “gioventù sospesa” e mostrano che si prospetterà un cambiamento solo mettendo a nudo le contraddizioni di un modello attuale di organizzazione del lavoro, di organizzazione sociale, di organizzazione delle relazioni.
L’allarme sui tassi di natalità e di fecondità mi ha rimandato indietro nel tempo, a quando nel 2009 è stata utilizzata una Sentenza della Corte Europea sulla parità uomo-donna in campo pensionistico, per cominciare a parlare di aumento dell’età pensionabile dai 60 ai 65 anni, in quel momento per le donne nel pubblico impiego.
I problemi che le donne mi avevano portato in quel periodo nel mio lavoro di ginecologa in Consultorio Familiare, si affollavano nella mia mente: lavoro discontinuo, precario, anche discriminato per genere; fattori che rendevano difficile per molte donne raggiungere a 60 anni i livelli contributivi necessari alla pensione (e di questo non si parlava, come non si parlava del fatto che l'età della pensione oscillava tra i 59 e i 60 anni, senza grandi differenze tra uomini e donne).
Un elemento soprattutto mi angustiava: la corsa contro il tempo di tante giovani per una gravidanza in tempo utile, di quante altre preoccupazioni si sarebbe gravata? Nonne e nonni sono il più diffuso servizio sociale nel nostro Paese e mantenerli al lavoro (a parte altre considerazioni) li avrebbe resi meno disponibili; nella programmazione/desiderio di gravidanza, altre preoccupazioni si sarebbero aggiunte alla paura/possibilità di mobbing o licenziamento dopo la maternità, alla scarsa possibilità di flessibilità e di part-time, alla carenza e ai costi degli asili nido.
Capivo che i problemi si sarebbero ulteriormente aggravati e che per non arrivare al collasso bisognava riaprire le questioni, a livello sociale, economico e soprattutto culturale, con maggiore capacità di visione complessiva, dato che resisteva la scarsa considerazione per il lavoro delle donne, per la maternità e la paternità, per il lavoro di cura. Mi hanno colpito le parole di una donna impiegata nella Pubblica Amministrazione: ”L'Europa dice pensione per le donne a 65 anni? Ma dobbiamo ancora entrarci, in Europa".
Osservazioni da una Istituzione Consultoriale
Nel lavoro quotidiano di consulenza come ginecologa nel consultorio famigliare di Vittorio Veneto (TV) e all’interno della progettualità istituzionale, è stata fondamentale la formazione come psicoterapeuta e coordinatrice di gruppo, acquisita presso l’IIPSA (Istituto Internazionale di Psicologia Sociale Analitica) diretta dal prof. Bauleo. Il corpus teorico della Concezione Operativa ha permesso di avere un supporto solido, la supervisione con il prof. Bauleo è risultata fondamentale per raggiungere maggiore mobilità e capacità operativa.
Questo mi ha permesso di affrontare la complessità con curiosità e tenacia, grata di ogni elemento nuovo che veniva alla luce, senza cedere alle lusinghe della semplificazione; mi sono sentita libera di pensare e anche di mettere in discussione una certa idea di famiglia, di adolescenza, di gravidanza; soprattutto, mi interrogavo su quali fossero i bisogni delle persone che si rivolgevano al Consultorio Familiare e su come prenderli in considerazione all’interno del lavoro.
L’Italia è un’eccellenza da un punto di vista sanitario, ma l’accompagnamento psicologico delle donne e delle coppie in gravidanza e nel periodo successivo al parto è in genere inadeguato e insufficiente.
Le donne si sentono fin dall’inizio della gravidanza, le abbiamo viste, sole, preoccupate, in preda spesso a insicurezze angoscianti e con una ansietà palpabile; le vedevo arrivare in Consultorio alla consulenza ginecologica inquiete, angosciate, percepivo come si trovassero con i nervi a fior di pelle, con un malessere che erompeva appena veniva permesso.
Difficile parlarne in équipe, visto che tutto questo non veniva riconosciuto come una realtà diffusa dagli altri operatori che si occupavano delle situazioni francamente problematiche o patologiche (5).
Eppure la funzione di un Consultorio Familiare consisterebbe proprio nella capacità di riconoscere le ansietà anche psicotiche che si mobilitano nei diversi momenti evolutivi e di passaggio da una fase all’altra della vita; una capacità che faciliti i processi trasformativi in atto, che conceda un tempo e uno spazio per arrivare ad un equilibrio necessariamente diverso.
Quante volte A. Bauleo ha sottolineato che il compito è combattere pregiudizi e stereotipi, ma la difficoltà sta prima di tutto nel riconoscerli perché fanno parte di una realtà in cui siamo immersi, e mettere in discussione l’idea con cui si lavora e le modalità acquisite nella formazione professionale, significa toccare il livello della socialità sincretica.
Ho cominciato a pensare, per i Consultori Familiari in primis, alla necessità di un nuovo compito istituzionale, in cui la gravidanza sia vista in tutta la sua complessità, un compito contro la naturalizzazione (6) della gravidanza (7) che diventa anche un compito contro la scissione salute-malattia e in cui il cambiamento sia riconosciuto in tutta la sua forza dirompente (8).
Considerare naturale quello che naturale non è, ma frutto di una costruzione sociale, può portare a una incapacità di intervento o a lavorare per una normalizzazione di quanto si discosta dalla norma. Poter invece guardare alla storia e alla geografia dei fenomeni, permette di considerarli quali emergenti di un contesto.
Ho approfondito in altre relazioni questi aspetti e voglio qui concentrarmi solo sulla relazione tra i tre termini: donne, figli, lavoro; ho cercato di delineare gli aspetti per me più chiari e salienti partendo da una esplicita attenzione alle giovani, per le quali non è stato sviluppato un sufficiente approfondimento sulle loro specifiche difficoltà nel passaggio al mondo del lavoro.
Ho lavorato molto con le giovani nel Consultorio Familiare e sento tenerezza per il loro modo di approcciarsi alla vita; sono state apprezzate, a volte le migliori, vincenti, in famiglia e nella scuola. Non vogliono sentire la parola femminismo, lo ritengono un residuo del passato, un segno di inferiorità; richiama loro una condizione diversa per uomini e donne, non vedono le differenze.
Queste ragazze si sentono forti, pensano di poter entrare nel mondo come gli uomini; nel mondo del lavoro incontrano il loro limite, sperimentano, spesso per la prima volta, la differenza come discriminazione e quindi la vivono come una inferiorità da superare, da cancellare.
Ho posto l’attenzione su quanto le giovani dicevano:
”Nei colloqui di lavoro, chiedono se stiamo pensando di avere figli";
"ma come, quando vedono che si tratta di una donna, il curriculum lo mettono per ultimo; mi hanno chiesto se penso di avere una famiglia, perché il lavoro di ingegnere non è un lavoro per donne”.
Cominciano a pesare le discriminazioni esistenti a livello lavorativo, che penalizzano tutte le donne, che desiderino o no avere figli, discriminate in quanto donne.
L’emergere della differenza mette in discussione la loro identità; possono reagire in modo spavaldo, cercando di uniformarsi: è quello che viene loro richiesto; la nostra è una società androcentrica in cui il modello vincente, quello a cui aspirare, è il modello maschile e in questo modello sono cresciute. Se assumono posizioni di vertice, vengono criticate e non accettate prima di tutto dalle altre lavoratrici, che le denigrano aspramente.
Come mai le donne, ancor meno che dagli uomini, non tollerano l’esercizio del comando e del potere da parte di altre donne? Viene riconosciuto in modo preponderante per le donne il livello di cura? Loro stesse possono assumere il modello maschile in modo ancora più rigido? Mi chiedo se non abbia ancora ragione Winnicott (9): ”Generalmente non si riconosce la dipendenza assoluta degli inizi e ciò contribuisce a generare la paura della DONNA, destino sia degli uomini che delle donne”.
Guardando alle rilevazioni ISTAT, vediamo che il tasso di occupazione delle giovani donne è più basso di quello dei coetanei, con una percentuale più elevata di part-time e di lavoro atipico. Nei dati, sono segnalate e fanno riflettere anche le scelte, spesso al ribasso, che tante donne fanno/sono costrette a fare, per l’accesso o per il mantenimento di un posto di lavoro; rimandano ad una società bloccata anche da stereotipi materni e paterni, a un contesto culturale che impregna di sé le relazioni, l’organizzazione sociale e l’organizzazione del mondo del lavoro.
Ho visto negli anni ’90 le donne ai tempi della precarietà (sulla quale, allora, non si ponevano dubbi) dover scegliere: o figli o lavoro; le ho viste di fronte a un bivio, nel dover scegliere tra maternità e lavoro che si presentavano come inconciliabili e in cui la mancanza di una autonomia economica o la difficoltà nel mantenerla, provocavano un vero e proprio dissidio tra l’essere madre e lavoratrice:
”Perdere il lavoro, no non posso, non ho alternative”;
“sto aspettando a breve il rinnovo del contratto, non posso dire che sono incinta, non posso continuare la gravidanza”.
La libertà viene coartata, la capacità decisionale viene offuscata; così, si rimanda nel tempo l’avere figli, se ne riduce il numero rispetto al proprio desiderio.
Possiamo tollerare che ci siano donne che scelgono l’I.V.G. per motivi collegati alla loro situazione lavorativa? Possiamo tollerare una società che può arrivare a “sterilizzare” uomini e donne?
Penso che il prof. Bauleo direbbe che sono sotto attacco i compiti della famiglia, bloccata nelle sue trasformazioni dalle immobilità istituzionali, sociali, culturali.
La contraddizione è all’interno di un sistema che prevede la donna inserita nell’ambito produttivo pensandola come un uomo, considerandone la specificità, la differenza, come peso e come ostacolo; aspetti che diventano conflitto o dilemma.
Ho visto poi le donne adattarsi alla precarietà: ”C’è un problema sì, con il lavoro, ma spero di farcela... d’altronde... cosa devo aspettare?”.
Da alcuni anni si sta presentando un nuovo aspetto, più subdolo, che spesso le donne pongono al centro delle loro preoccupazioni fin dall’inizio della gravidanza: il tema delle discriminazioni esistenti a livello lavorativo, fatto di clima pesante e azioni concrete; dicono:
”Sento una ostilità da parte dell’ambiente di lavoro, ma... è tutta la società che ti butta fuori";
"anch’io, come le colleghe al rientro dalla maternità, mi troverò a dover ricominciare per arrivare al livello attuale...";
"è particolarmente odioso essere in balia della discrezionalità altrui alla ripresa del lavoro dopo il parto"; "lasciare un lavoro che ti piace perché non ti concedono il part-time non è giusto, no, non è giusto”.
Aspetti che fanno il paio con la simbiosi, che fa sentire come una lacerazione il ritorno al lavoro; il lavoro si pone come terzo, ma se il terzo non è attraente... Il lavoro che può porsi come strada per uscire dalla trappola della simbiosi: ”Non ne potevo più, casa ebambino, al lavoro mi sono sentita di nuovo normale ...”, può non essere più possibile o accessibile.
Tanto che a volte non è facile esprimersi: ”Sono tornata al lavoro che la bambina aveva quattro mesi, era necessario, ma sento ancora il dolore”.
Le dimissioni delle neomamme
Come una bomba (per chi l’ha sentita) è emersa, nel rapporto annuale ISTAT 2010, l’indagine multiscopo “Famiglie e soggetti sociali” del 2009; l’indagine ha rilevato che tra le donne con figli che lavorano o hanno lavorato, il 15% dichiara di aver interrotto l’attività lavorativa in seguito alla nascita di un figlio; questa percentuale si mantiene stabile tra le donne più giovani (14,1).
Tra le donne che si sono dimesse, l’8.7% (800.000 donne dell’indagine) hanno dichiarato di essere state licenziate o messe in condizione di doversi dimettere a causa di una gravidanza; la percentuale diventa superiore al 10% per le residenti nel Mezzogiorno o se in possesso di basso titolo di studio e sale al 13% tra le più giovani (nate dopo il 1973).
Cosa ci dicono queste dimissioni? Cosa dicono su questo gli articoli della Costituzione? (10)
La protezione del lavoro come fondamento per la propria dignità e la parità di genere sono già nella Costituzione!
Eppure la disparità retributiva resta un fenomeno pandemico, nonostante in Italia vi sia anche la L. 198/2006 che regola la parità salariale.
Da alcuni anni, in ogni provincia, la Direzione Provinciale del Lavoro deve convalidare le dimissioni volontarie dal lavoro e successivamente esplicitarne il numero e le motivazioni; si tratta di neomamme che riferiscono più o meno così ogni anno: assenza di rete parentale, desiderio di cura, mancata flessibilità, elevati costi degli asili nido, mancato accoglimento al nido.
Restano sconcertanti i dati sulle dimissioni volontarie delle neomamme, dati che si mantengono invariati anche in tempi di crisi e nelle giovani; di qui, emerge in primo piano la questione delle discriminazioni e delle dimissioni volontarie (ma quanto volontarie?) delle neomamme; diventa un punto di osservazione da cui chiedersi: ”Ma perché ci sono donne, anche in questo periodo di crisi economica, che lasciano il lavoro, che perdono la loro autonomia? A quali esigenze o a quali pressioni rispondono?”.
I dati vengono raccolti tramite questionari... così mi sono detta più volte: ”Se si ponesse un dispositivo gruppale, gli emergenti parlerebbero più chiaramente dei fattori in gioco”.
Il desiderio di prendersi cura dei figli è espresso come motivo di dimissioni dalla metà delle donne intervistate; così come le donne che sono tornate al lavoro nei primi mesi di vita del bambino, parlano di quel momento come di una ferita... Sappiamo quanto sia importante una buona simbiosi e torna alla mente quanto scritto da Freud sul rapporto madre-figlio, quel rapporto che lega in modo particolare la madre ai figli fino ai due anni di età.
Alcune donne hanno la sensazione di non riuscire a staccarsi dal proprio figlio, altre arrivano a pretendere che il padre del bambino lavori di più per permettere a loro di restare a casa. Tutto può apparire più fosco e persecutorio, specie se si presenta la necessità di un rientro al lavoro “precoce” rispetto ai tempi della simbiosi.
La tendenza a ridurre o a lasciare il lavoro può coniugarsi con condizioni favorevoli o sfavorevoli nell’ambiente di lavoro e negli altri ambiti; ricordiamo episodi di 40-50 anni fa, con asili rimasti chiusi per mancanza di iscrizioni sufficienti: era disdicevole che le madri lavorassero e mandassero i bambini all’asilo. La spinta attuale ad un “allattamento ad oltranza e a richiesta” del bambino, può favorire situazioni di chiusura rispetto ad altre esigenze del bambino e a non considerare importanti altri compiti familiari, quali le necessità economiche e di socializzazione.
Ho cercato di informarmi e di saperne di più; ho partecipato a Convegni a livello istituzionale, dove rappresentanti della Direzione Provinciale del Lavoro, sindacaliste, donne imprenditrici, si interrogavano su questi aspetti.
Ho conosciuto l’iter che le donne più decise seguono nelle situazioni di discriminazione lavorativa e i casi riportati parlavano di rigidità ed espulsioni che mettono in difficoltà anche l’equilibrio psichico delle persone; emblematica la situazione di una madre single allontanata dal lavoro: non le veniva concesso il ritardo di alcuni minuti necessario per portare il bambino al nido... questo, quando in altri paesi europei a queste donne vengono assicurati lavoro e supporti economici.
Di mobbing parla l’Osservatorio Nazionale Mobbing, che lo riconosce come fenomeno importante dopo la nascita di un figlio: i casi di mobbing successivi alla maternità sono aumentati del 30% dal 2011 al 2016, ma i casi che si trasformano in effettive denunce sono pochissimi (l’onere della prova spetta alla lavoratrice).
Viene stimato tra i 350mila e i 500mila in due anni il numero delle donne discriminate per la maternità o per aver avanzato la richiesta di conciliare lavoro e vita familiare. Le donne, tornate al lavoro, vengono considerate “improduttive” e possono subire demansionamenti, ingiustizie e vessazioni fino a provocarne le dimissioni; questo riguarda in uguale misura libere professioniste e lavoratrici dipendenti, a tutti i livelli.
Ho sentito una donna raccontare come all’interno di una azienda familiare fosse discriminata come madre-lavoratrice dai suoi stessi familiari (padre e fratello); d’altra parte, ci sono aziende in cui viene favorito il lavoro, con asilo-nido aziendale e flessibilità (11).
Abbiamo visto come la natalità sia correlata ai livelli di occupazione femminile (e-e) ma come persista nei fatti anche la dicotomia tra figli e lavoro (o-o).
Tutto questo ci parla di situazioni a volte dilemmatiche; pensiamo che restino senza conseguenze?
A distanza di anni:
”l’errore più grande che ho fatto, è stato lasciare il lavoro";
"non ho potuto sottrarmi alla violenza e separarmi da mio marito, finché non ho trovato un lavoro";
"dopo una vita dedicata alla famiglia, mi dicono che non ho mai fatto niente in vita mia...”
e si sentono niente!
Ma anche, d’altra parte, può emergere il rimpianto per aver sottratto del tempo ai propri figli, il risentimento per non vedere apprezzato il proprio lavoro, la stanchezza di una situazione di multitasking, insoddisfacente.
Il lavoro delle donne in Italia
Il tasso di occupazione femminile in Italia nel 2017 è aumentato di circa due punti, dal 47 al 49,2%, mentre nei 28 paesi dell’Unione Europea la media è variata dal 60 al 61,6%. Peggio di noi solo la Grecia, mentre in Germania è al 70% e in Svezia al 74%; in Italia le donne che hanno un lavoro guadagnano meno degli uomini, anche a parità di lavoro, hanno mansioni di qualità inferiore e poche raggiungono i vertici di imprese e politica.
La partecipazione femminile al lavoro si situa più che per gli uomini nell’area dei “lavoretti” che non hanno dignità di lavoro e in quella del lavoro non riconosciuto, il “non lavoro”. Non stiamo dimenticando le situazioni di vita di altri lavoratori; stiamo cercando di entrare nella specificità delle condizioni di vita e di lavoro delle donne.
Le statistiche italiane che parlano della suddivisione del lavoro in casa mostrano una importante disparità e raramente esplicitano le difficoltà nel cambiamento dei comportamenti. Tuttavia le nuove generazioni preferiscono equilibri diversi nella divisione dei compiti familiari, anche se ancora persiste invariato nel tempo l’abbandono del lavoro dopo la maternità nel 15% delle donne occupate. Questo avviene in parte anche negli altri paesi europei, ma in Italia l’occupazione non aumenta con l’età del bambino, l’uscita delle donne diventa definitiva soprattutto al secondo figlio.
Nel 1970, dove le donne lavoravano di più, nascevano meno bambini, essere madri o essere lavoratrici erano in alternativa e questo dato si correla al calo di fecondità del periodo 1976-1995; sono particolari i fattori in causa: tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ‘70, le donne continuavano il lavoro dopo la maternità ma spesso si limitavano ad un solo figlio; si facevano sentire le influenze del femminismo e i cambiamenti nel costume.
Nel 2000, al contrario, dove le donne lavorano di più, nascono più bambini, inizia una correlazione positiva tra tassi di occupazione femminile e natalità, in tutti i paesi europei. Questo trend è simile in Italia, lo si vede seguendo le differenze tra le varie regioni; nel Sud, i livelli di più bassa occupazione femminile sono correlati a più bassi tassi di natalità.
Negli altri paesi europei i livelli più elevati di occupazione e di natalità, sono sostenuti da istituzioni che promuovono sia l’occupazione che la fecondità; dove l’occupazione femminile è più elevata, è anche più elevato il numero di part-time volontario e tutta l’organizzazione sociale è più flessibile, per permettere una conciliazione tra i diversi compiti del gruppo familiare. Se l’organizzazione è rigida e si richiede flessibilità solo ai lavoratori secondo gli interessi delle aziende e delle varie istituzioni, si presentano situazioni inconciliabili tra i tempi di vita e quelli del lavoro. Tutta l’organizzazione sociale ed economica in Italia spinge tante lavoratrici fino a situazioni insostenibili e d’altra parte può far percepire le donne al lavoro come un peso e un ostacolo.
“Perché assumere una donna giovane che un domani può assentarsi per maternità e alcuni oneri saranno a mio carico, quando ho ampia scelta?” si chiede una professionista. Regole non scritte lasciano spazio alle discriminazioni, allo svilimento della personalità; l’essere “guardata male” dal proprio “capo” al primo figlio e non essere più da lui “guardata in faccia” al secondo, come lo possiamo qualificare?
Non stiamo parlando di mobbing, questa è la quotidianità; la gravidanza diventa così un ulteriore fattore di disuguaglianza e questo le donne non lo dimenticano (12).
Il modello Italia
Da anni, vengono recensiti libri saggi e film su queste tematiche, ma sembra ci sia un muro di gomma, un “si salvi chi può”.
Nei primi giorni di Gennaio del 2017 è stata resa pubblica la lettera di una donna che si definisce ingegnere-mamma di 33 anni: “durante la gravidanza – dice - la decisione di avere un secondo figlio non è stata bene accolta al lavoro, ma credevo che la mia scrivania l’avrei rivista. Invece pochi giorni prima di rientrare, con la piccola di quattro mesi già iscritta al nido, la segretaria mi ha detto che non possono permettersi di farmi tornare. E’ così che crolla tutto... mi chiedo come sarà il futuro e come mai si possa rinunciare a mettere al mondo un figlio per conservare un lavoro".
Il lavoro, base per la dignità e la possibilità di autodeterminazione della persona, può diventare strumento di subordinazione e di violenza.
Vedere scrivanie che saltano, posti di lavoro che traballano, donne svilite nelle loro mansioni, non dovrebbe provocarmi così tanto, visto che fino all’inizio degli anni ’70 le donne venivano licenziate direttamente già durante la gravidanza (13). Invece no, perché tutti questi aspetti, invisibili ai più, sono la sostanza della vita delle persone, il collante che rende evidente l’insostenibilità dell’organizzazione sociale.
Si parla molto, e a ragione, di molestie e di violenze, ma “si dimentica” quella che possiamo chiamare violenza sociale, che resta latente se non entriamo nella critica della realtà, nella critica della economia politica e sociale.
Il fatto che permanga ancora rigida la divisione tra il lavoro di cura e il lavoro professionale con funzioni attribuite in modo diverso al femminile e al maschile fa riflettere anche sulle forme di adattamento che donne e uomini hanno assunto, fatto proprie, restando all’interno dei ruoli a loro attribuiti.
Attualmente i congedi parentali vengono utilizzati dai padri in maniera irrisoria ed è difficile per uomini e donne esercitare il diritto al part-time volontario e alla flessibilità nella organizzazione del lavoro, anche se questo viene sollecitato dall’Unione Europea.
Leggendo il libro "Cura della famiglia e il mondo del lavoro", di Pierpaolo Donati e Riccardo Prandini, mi sono resa conto che per comprendere la situazione italiana bisogna ampliare lo sguardo, ad esempio guardando ad altri Paesi europei, quali Francia, Germania, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia; in questi paesi da decenni si è andato strutturando un tipo di welfare in cui, in modi diversi, lo Stato tutela la donna sia come lavoratrice che come donna e madre e nello stesso tempo offre sostegni e incentivi per una maggiore partecipazione degli uomini nelle cure e nelle responsabilità familiari.
Il modello Italia sarebbe in qualche modo comune, secondo i sociologi, ai Paesi del Sud-Mediterraneo, nei quali persiste una divisione del lavoro tra uomini e donne secondo il modello del maschio procacciatore di reddito per la famiglia, all’esterno, mentre la donna resta a sostegno dell’uomo e nella cura della casa, dei figli, degli anziani, dei malati; uomini e donne sono dunque in un rapporto di dipendenza reciproca, che può facilitare situazioni di violenza relazionale.
La gravidanza stessa può inasprire le relazioni di coppia e il partner può essere spinto a stabilire maggior potere e controllo sulla donna. E sarà così che la violenza nelle sue diverse forme, non risparmia neppure la gravidanza, anzi tende ad acuirsi se già presente o a presentarsi in questo periodo (un terzo dei casi di violenza inizia durante la gravidanza) (14), con fenomeni che arrivano a femminicidi che suscitano particolare orrore.
Eppure è un modello in cui resiste l’idea che le discriminazioni siano in realtà divisioni funzionali al buon andamento del mercato, dell’economia e della vita famigliare; importante evidenziare come siano correlate ad un’organizzazione del lavoro che sottende un certo tipo di pensiero e di cultura.
Di fatto, la partecipazione delle donne al lavoro extra-familiare viene considerata come complementare al lavoro e al reddito maschile e la presenza dell’uomo come complementare al lavoro di cura negli spazi e nei modi lasciati liberi/vuoti da un sistema di welfare che sappiamo, in Italia, è soprattutto un welfare familiare affidato alle donne.
Il lavoro esterno della donna, visto come una integrazione al reddito familiare, non assume valore in sé come fattore essenziale; anzi, donne che trovano interesse e vitalità nel lavoro, possono essere osteggiate dai propri familiari e “rimesse al loro posto”, a fare le mamme, a fare le nonne.
Anche questo fa sì che la società sia carente di azioni di sostegno alla partecipazione lavorativa delle donne, ci siano pochi servizi, pochi benefici per la donna che deve ricoprire vari ruoli; così si disincentivano le donne con più basso livello di istruzione e con lavoro poco remunerato, aumentando le disuguaglianze.
Di qui, si possono esprimere tutta una serie di considerazioni: sui limiti che donne e uomini impongono e patiscono nell’accesso e nella esplicitazione della maternità e della paternità; sulle modalità con cui si esprimono oggi il ruolo paterno e quello materno; sulla necessità di riconsiderare il vincolo tra funzione materna e funzione paterna, di pensare una conciliazione che non riguardi solo le donne.
La parola conciliazione rimanda a un conflitto: fino agli anni ’60 le donne lavoravano fuori casa fino alla nascita dei figli; ora che le donne vogliono restare al lavoro anche dopo si accentua il conflitto tra figli e lavoro. Conflitto non solo in ambito lavorativo, ma anche nell’ambito familiare e all’interno delle persone; come già detto, può esserci un vero e proprio dissidio nel conciliare l’essere madre e l’essere lavoratrice.
Il congedo paterno obligatorio
Il congedo paterno obbligatorio in Italia è stato finora proposto in termini riduttivi e ridicoli: due giorni, quattro giorni... un congruo congedo paterno obbligatorio e retribuito (esistono situazioni esemplari in Europa) andrebbe ad incidere su una organizzazione sociale che separa il maschile e il femminile e non ne permette una ricomposizione e una evoluzione; andrebbe a dire che donne e uomini sono soggetti a tutti gli effetti, in tutti i campi e permetterebbe una più libera espressione del maschile e del femminile in ognuno.
Nel lavoro in Consultorio con i futuri padri, in un gruppo, nel periodo della gravidanza, questi hanno messo in discussione la situazione esistente, qualcuno dicendo di temere che la sua vita affettiva fosse troppo limitata: ”Lavori lavori ... poi un giorno puoi arrivare a scoppiare e magari ti ritrovi solo”; in quel contesto hanno parlato anche di un “patatràc” che può avvenire nella coppia, cercando di vederne i perché.
E’ emerso così, come i neopadri possano sentirsi sminuiti, non sufficientemente coinvolti; soprattutto i più giovani, temono di sentirsi esclusi dopo la nascita, irrilevanti come ruolo; hanno bisogno di sentire la loro presenza fondamentale, di lasciarsi andare in un pieno coinvolgimento.
Hanno riconosciuto come l’ambiente di lavoro difficilmente permetta loro di scegliere in base alle esigenze della famiglia e temono di trovarsi a contrattare, a dover cedere sui tempi...; alcuni neopadri che hanno chiesto una astensione dal lavoro per la nascita di un figlio o che hanno richiesto i congedi parentali previsti per legge, hanno subito boicottaggi, derisioni, anche difficoltà nella carriera.
Una minore asimmetria nella cura dei figli, permetterebbe di ridurre i sentimenti di esclusione e di solitudine che possono insorgere. Ricordiamo lo scritto "La passione di crescere" (15) in cui Arminda Aberastury analizza e riconosce l’importanza di un contatto precoce padre-figlio.
Parafrasando Winnicott, ci possiamo chiedere: ”Quali sono le condizioni, attualmente, per essere madri e padri sufficientemente buoni?”.
La società appare completamente indifferente a tutto questo e gli uomini in genere ignari dei loro bisogni e di quali “sarebbero” i loro compiti durante la gravidanza e alla nascita dei figli.
Se il lavoro di cura non viene riconosciuto come problema politico, sociale e culturale resta problema individuale, fatica che colora di malessere la quotidianità, vissuta nella solitudine e nella mancanza di vie di uscita. E’ fondamentale affermare il valore sociale della maternità e della paternità, così come dare valore al lavoro di cura degli uomini e al lavoro remunerato delle donne, per connettersi ai compiti del gruppo familiare e combattere la stereotipia assunta di ruoli e funzioni.
In tutto questo ci sono resistenze a tutti i livelli e in tutti i campi; pregiudizi e arretratezza possono essere presenti nell’organizzazione del lavoro privato, nella pubblica amministrazione, a livelli politici e sindacali ma anche nella testa di donne e uomini.
Possibilità al ribasso per le donne, ma anche scelte al ribasso delle donne.
Ritengo fondamentale che queste considerazioni vengano incluse nel lavoro sociale e terapeutico in cui, a ben vedere, possono emergere sofferenze, angosce, violenze, collegate agli aspetti messi in evidenza.
Nel campo della Psicologia Sociale
Sono entrata nel campo della Psicologia Sociale, partendo da osservazioni cliniche e collegandole a dati statistici e sociologici per comprendere le persone nelle loro concrete condizioni di esistenza; in questo ritrovando il pensiero di E. Pichon Rivière che nei suoi scritti (16)(17) parla della psicologia sociale come critica della vita quotidiana e mostra la necessità di unire la ricerca psicoanalitica con la ricerca sociale; una psicologia sociale che ha come oggetto di studio lo sviluppo e la trasformazione della relazione dialettica che si dà tra struttura sociale e configurazione del mondo interno del soggetto che poggia sulle sue relazioni di necessità.
E così comprendo perché continuo a vedere nel lavoro terapeutico donne insoddisfatte sia del loro lavoro che del tempo per i figli, come ci fosse una sottrazione costante in questo e-e, uno sbilanciamento continuo, un sacrificio nella dimensione personale e/o di coppia. Alcune donne, che non sanno come reagire alla stanchezza e alle richieste (interne ed esterne), arrivano a chiedersi se devono rinunciare ai livelli lavorativi raggiunti: ”Ma dopo aver studiato e lavorato tanto, devo chiedere un part-time, che poi non voglio chiedere, perché sembra non sia mai abbastanza quello che faccio?”.
Parlano di una crisi, ma (seguendo il pensiero di J. Bleger) mi chiedo: ”Quanta ambiguità c’è nei messaggi che arrivano dai diversi ambiti?” (18).
Ricordo gli anni ’70: i cambiamenti legislativi, sociali ed economici, l’influenza del femminismo, tutto ha rimesso in discussione la posizione degli uomini e delle donne all’interno della famiglia, nei compiti e nelle funzioni. I cambiamenti hanno provocato tali crisi nell’ideologia familiare da vedere tacciate le donne come responsabili allora di una “crisi di identità” negli uomini. Ricorderete anche il modo con cui si parlava delle “donne in carriera” e del lavoro delle donne utile per soddisfare il superfluo; a volte sembra che il tempo non sia passato. Se poi andiamo a consultare il documento del Ministero della Salute collegato al “Fertility day”, ci accorgiamo che veramente il tempo con le sue stereotipie si è fermato (19).
Il prof. Bauleo, nel testo "Ideologia, Gruppo e Famiglia" (20), mette in luce quanto siano importanti sia l’ideologia sia le trasformazioni dell’ideologia familiare e sociale.
La naturalizzazione della famiglia mette in ombra il gruppo familiare con i suoi compiti, con una sua ideologia che si trasforma con i cambiamenti del contesto; l’attenzione ai compiti della famiglia può rivelare non solo le trasformazioni dell’ideologia familiare ma anche le parti che resistono come immutabili.
Le osservazioni in ambito lavorativo e lo schema di riferimento della Concezione Operativa con cui ho potuto accostarmi a questi temi, hanno permesso di guardare oltre il velo che nasconde l’arretratezza del paese Italia: un’arretratezza che pone ostacoli culturali, economici, organizzativi, sociali al cambiamento. E’ necessario un pensiero per un cambiamento culturale in grado di contrastare il passato che sopravvive nella cultura, nei rapporti sociali e di lavoro e nelle relazioni.
Note
1. Ginecologa-Psicoterapeuta
2. Report ISTAT (Anno 2016. Novembre 2017)
3. Per parlare della diminuzione della natalità e della fecondità, andiamo a vedere i dati di un periodo precedente: nel ventennio 1976-1995 la fase di forte calo della feconditàaveva portato nel 1995 al minimo storico di1,19 figliper donnae a una progressiva riduzione negli anni successivi di donne in età feconda, età convenzionalmente fissata tra i 15 e i 49 anni. Tra il 1995 e il 2008 la riduzione delle nascite è proseguita nelle regioni del Mezzogiorno, mentre si è registrato un aumento dei nati nelle regioni del Centro e del Nord; nel2008 il tasso di fecondità è arrivato a 1,42. A partire dal 2009 in tutte le aree del paese, a parte il Trentino-Alto-Adige, si registra un continuo calo delle nascite. I tassi più bassi di natalità si registrano nella Basilicata, in Valle d’Aosta, nel Molise e nella Sicilia, mentre i tassi più elevati, con un forte distacco della provincia di Bolzano, si hanno nel Lazio e nella Lombardia. Da segnalare che alcune regioni italiane, specie al Sud, stanno perdendo percentuali importanti di popolazioneper deficit di natalità e l’allontanamento dei giovani. Di anno in anno si riducono il tasso di natalità (dal 9,3 ogni milleresidenti nel 2010 all’8 per mille nel 2015; nel 2016la natalità è di 476mila unità, a fronte delle 486mila dell’anno precedente) e il tasso di fecondità, ulteriormente diminuito nel 2016, dall’ 1,35 all’1,34; questi tassi sono insufficienti a garantire il ricambio generazionale e si accompagnano alla scelta di rinviare sempre più in là il momento in cui avere figli. L’età media delle madri al parto continua a salire, ora intorno ai 32 anni.La diminuzione della natalità è attribuibile principalmente alle coppie di genitori entrambi italiani; le coppie in età riproduttiva sono sempremeno numerose; il numero medio di primi figli per donna è sceso dallo 0.73 del 2010 allo 0.65 del 2015. La riduzione dei tassi di fecondità è più accentuata tra i 25-29 anni, l’incremento più rilevante tra i 35-39.Si è cercato di interpretare il cambiamento dei comportamenti riproduttivicon la concomitanza di effetti “strutturali” (le generazioni di donne nate a metà degli anni ’60 erano molto più numerose delle generazioni più giovani che via via raggiungono l’età feconda) uniti al dispiegarsi degli effetti della congiuntura economica; si è trascurato il dato importante di civiltà, che vede una continua diminuzione delle nascite da madri minorenni (intorno allo 0,4 del totale).
4. Una prima campagna, costituita da vignette e slogan che invitavanoa difendere la propria fertilità, un bene comune, a non mandarla in fumo, a darsi una mossa ... è stata paragonata alle campagne che nel Novecento invitavano a fare figli per servire meglio lo stato e ritirata tra lo sconcerto istituzionale. Per “migliorare la comunicazione” è stato diffuso un opuscolo su: “Stili di vita corretti per la prevenzione della sterilità e dell’infertilità”; vi si rappresentavano le “buone abitudini da promuovere” e ”i cattivi compagni da abbandonare”; l’opuscolo è stato accusato di razzismo e ritirato.
5. Tessari G. (1989), “Il ginecologo nel Consultorio Familiare-Alcune difficoltà istituzionali”, Padova, Rivista Consultorio Familiare, Anno IV, n.2, (1989).
6. Per naturalizzazione della gravidanza si intende il considerare la procreazione come un processo naturale ”che è quel che è”, che si ripete sempre uguale, avulso dalla storia, dal contesto e dalla realtà psicosociale; il processo di naturalizzazione non prende in considerazione il desiderio e i fantasmi che ci sono intorno alla gravidanza.
7. De Brasi M. (A cura di), (1992), I sintomi della salute, Bologna, Pitagora.
8. Bion W. (1981), Il cambiamento catastrofico, Torino, La Sfinge. Collana di psicoanalisi.
9. Winnicott D.W.(1975), Dalla pediatria alla psicoanalisi-“La preoccupazione materna primaria”, p.362, Firenze, Martinelli.
10. Art.1: L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.Non dice fondata sul lavoro degli uomini, parla di lavoro che l’art.4 riconosce come diritto al lavoroper tutti i cittadini; l’art. 36 fa dipendere dal lavoro e dallarelativa retribuzione un’esistenza libera e dignitosa. Continuando con la lettura degli art.36 e 37vediamo che tutte le forme di lavoro precario e atipico si pongono in contrasto con i dettami costituzionali; si parla di uguali retribuzioni, a parità di lavoro, tra uomini e donne, per le quali le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.Art. 41: L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità socialeo in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
11. Andrebbe ripensato tutto il sistema di incentivi per la conciliazione, ci dicono le economiste A. Casarico e P. Profeta:” La nostra analisi rivela chiaramente che dove le imprese hanno una cultura più paritaria, la disuguaglianza di genere nel campo dell’occupazione è più bassa”. Ma possono esserci aziende virtuose, in cui i tentativi di rimuovere gli ostacoli alla continuazione del lavoro dopo il parto restano inefficaci; mi ha colpito una situazione, in cuila parte sindacale cercava di ottenere il maggior beneficio economico possibile per una neomamma che voleva dimettersi e l’imprenditrice ne era dispiaciuta, ci sarebbe stata una perdita in professionalità acquisita.
12. Il tasso di occupazione delle donne in Italia, lo abbiamo visto,è tra i più bassi in Europa.Come intervenire? Parte di loro rinuncia al lavoro dopo i figli; tutte, assumono il ruolo di ammortizzatori sociali, economici, affettivi e di carriera è meglio non parlarne.Nel 1991la legge 125 per la promozione di azioni positiveper le donne ha previsto pari responsabilità tra uomini e donne nella famiglia e nel lavoro e rafforzato il ruolo della consigliera di parità, ruolo istituito in ogni regione e che si occupa delle situazioni di discriminazione sul lavoro; è una legge rimasta per gran parte non attuata, anche perché persisteva il fenomeno delle “dimissioni in bianco”che poneva le donne nelle manidei datori di lavoro, specie nel momento di una gravidanza.Ora concretamente queste dimissioni non dovrebbero essere più possibili, ma sembrano rimaste nella testadei datori di lavoro e anche delle lavoratrici, come vedremo più avanti.Le norme in essere fino agli anni ‘90 costituivano un sistema legislativo coerente nel confermare il ruolo della donna come moglie, madre e figlia al servizio della famiglia e della società.Nel 1992il decreto legislativo 503 sancisce la fine delle pensioni baby nel pubblico impiego e l’innalzamento dell’età pensionabile dai 55 ai 60 anni per le donne e dai 60 ai 65 per gli uomini; peccato che il legislatore abbia “dimenticato” il fatto che le pensioni baby per le donne avevano permesso allo Stato di eludere il problema dei servizi per l’infanzia e per gli anziani, situazioni tuttora irrisolte.La complessità è tale, che diventa difficile considerare tutti gli aspetti in gioco, anche perché si presentano in modo diverso, anche contraddittorio, nei diversi soggetti e nelle diverse situazioni.
13. La legge n.1204 del 1971ha introdotto per la prima volta in Italia il concetto di maternità come valore “sociale”, predisponendo una serie di soluzioni economiche e normative per le lavoratrici dipendenti; diritti che si sono estesi negli anni alle altre categorie di lavoratrici; dal 1977anche per il padre si comincia a contemplare qualche limitato diritto attraverso i congedi parentali. Ma il sottotesto di queste norme sta nella salvaguardia della salute durante la gravidanza e nella possibilità di continuare a svolgere il proprio lavoro senza compromettere la cura dei figli. E perché i compiti familiari sono assegnati essenzialmente alle donne, anche negli articoli 36 e 37 della Costituzione?
14. Dubini V. (Coordinato da), (2010), Violenza contro le donne-Compiti e obblighi del ginecologo, Cento (FE),EDITEAM
15. Balello L., Fischetti R., Milano F. (a cura di) (1994), La Passione di crescere, Bologna, Pitagora.
16. Pichon-Riviere E. (1979), Teoria del vinculo,Buenos Aires, Nueva Vision.
17. Pichon-Riviere E. (1985), Il processo gruppale, Loreto, Lauretana.
18. Bleger J. (1993), Simbiosi e ambiguità,Loreto, Lauretana.
19. Nel documento pubblicato nel maggio 2015, che titola “Piano Nazionale per la fertilità”, ci sono frasi impossibili da commentare: ”... l’attuale denatalità mette a rischio il welfare”, “... si assiste a una pericolosa tendenza a rinviare il momento della maternità in attesa di una realizzazione/affermazione personale che si pensa possa essere ostacolata dal lavoro di cura dei figli...“, “... la crescita del livello di istruzione per le donne ha avuto come effetto sia il ritardo nella formazione di nuovi nuclei familiari, sia un vero e proprio minoreinvestimento psicologico nel rapporto di coppia, per il raggiungimento dell’indipendenza economica e sociale...”
20. Bauleo A. J. (1978),Ideologia, gruppo e famiglia, Milano, Feltrinelli.
(Lavoro presentato alla II "Assemblea sulla ricerca nella Concezione Operativa di Gruppo", Madrid, 26-28 aprile 2018. Pubblicato in "ÁREA 3. CUADERNOS DE TEMAS GRUPALES E INSTITUCIONALES", www.area3.org.es)